Morte di Pantani: scagionato, ora chiede i danni

Rimini

di ANDREA ROSSINI

RIMINI. Arrestato per la morte di Marco Pantani, fu riconosciuto colpevole di aver dato il proprio contributo allo spaccio fatale sia in primo grado sia in appello e condannato a quattro anni e mezzo, ma alla fine venne assolto dalla Cassazione.

“Una vergogna”, fu il commento di Tonina, la mamma del Pirata. A più di due anni dal definitivo proscioglimento della Corte suprema, che annullò il verdetto senza rinvio a un nuovo processo “perché il fatto non sussiste”, l’ex imputato Fabio Carlino, 36 anni, leccese, chiede un risarcimento economico allo Stato per ingiusta detenzione. Dieci anni fa, all’epoca dei fatti, trascorse un mese in carcere (più un altro mese ai domiciliari). L’avvocato Luca Greco ha presentato per lui la domanda di riparazione alla Corte d’appello di Bologna e a breve si terrà il relativo procedimento in camera di consiglio. Per essere risarciti, infatti, non è sufficiente l’assoluzione irrevocabile, ma si valutano anche eventuali comportamenti ambigui o omissivi tenuti nel corso dell’inchiesta, tali da aver tratto in inganno i magistrati. Certamente era di Carlino, allora titolare di un’agenzia di ragazze-immagine, l’appartamento di viale Regina Elena considerato la base logistica degli spacciatori che “uccisero” Pantani. Il campione, il 9 febbraio 2004, bussò proprio alla sua porta perché lì avrebbe dovuto incontrare il suo ultimo fornitore – Fabio Miradossa - convivente e amico dello stesso Carlino. Miradossa, invece, spaventato dalle sfuriate telefoniche di mamma Tonina, nel frattempo si era rifugiato a Napoli. Preoccupato delle insistenze del Pirata, e solo per il timore di finire a sua volta nei guai, Carlino si era adoperato da Rimini per metterlo in contatto con gli spacciatori “collaborando” - ma solo secondo l’interpretazione dell’accusa - all’ultima cessione di cocaina effettuata al residence “Le Rose” dal “cavallo” Ciro Veneruso.

 

Carlino si dichiarò innocente fin dal primo momento sostenendo che la sua unica intenzione era levarsi di torno quell’ingombrante “acquirente” che continuava ad assillarlo a casa indirizzandolo a chi gli aveva dato appuntamento e avrebbe potuto soddisfarlo. Fu lui a chiamare al telefono Miradossa per sollecitarlo in tal senso. “Risolvi il problema: o gliela dai o non gliela dai, ma risolvi il problema”. Tutti sanno come andò a finire. Per i giudici della Cassazione, però, quelle parole erano un invito a troncare il rapporto di fornitura. “Dai fatti emerge evidente – si legge nelle motivazioni - l’estraneità di Carlino non solo rispetto alla compravendita dello stupefacente, ma anche rispetto alla fase della consegna, interamente gestita dalla coppia Miradossa-Veneruso i quali, pur potendo servirsi dell’ausilio di Carlino direttamente pressato dal compratore, ritennero di non coinvolgerlo”. Non è decisiva neppure la circostanza che sia stato lui o meno a indicare al “fattorino” l’alloggio del pirata. “Dalle rimostranze che Carlino rivolse ai due spacciatori per le seccature che indirettamente gli provocavano esulava la coscienza o la volontà di istigare o rafforzare l’altrui proposito di portare a compimento l’illecita cessione”. Dalla certezza acquisita che l’ex imputato non c’entrava con la morte di Pantani al riconoscimento di un bella sommetta a titolo di risarcimento per il suo coinvolgimento iniziale nella vicenda, però, il passo non è breve. Nei primi interrogatori, infatti, fu lui ad attirare su di sé i sospetti raccontando agli investigatori delle mezze verità e ispirando piccoli depistaggi, forse al solo scopo di non incrinare la reputazione di bravo ragazzo, studente modello e nipote di un alto prelato, che invece a Rimini è stato sul punto di perdersi tra ballerine a cocaina.

 

 

 

 

 

 

 

 

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