Ius soli, i ragazzi ravennati senza passaporto

Rimini

RAVENNA. «Quando dico che sono italiana mi chiedono: “ma ce l'hai il documento?” Mi metto nei panni delle persone che sono nate e vivono qui e non hanno ancora la cittadinanza. È bruttissimo sentirsi italiani ma non potere dimostrarlo. Essere diversi perché non hai un pezzo di carta. Non dovrebbe essere solo questo a dire cosa sei, cosa ti senti.»

La situazione di G., maggiorenne residente a Ravenna, dalla tripla cittadinanza, è un caso limite nel gran groviglio della legislazione italiana, ma le sue parole parlano oggi a tutti gli 800mila ragazzi del nostro Paese interessati dalla questione che, per semplicità, è stata battezzata “ius soli”, ovvero l'ottenimento della cittadinanza italiana per chi è nato su suolo italiano da genitori stranieri.

Il progetto di riforma della vecchia legge sulla cittadinanza, che risale al 1992, si trascina da 13 anni. Da allora sono trascorsi anni importanti, che hanno visto l'esplosione definitiva del fenomeno migratorio, il mutamento del tessuto sociale delle città, e con essi il ribaltamento dell'opinione pubblica.

Stranieri, ma nel Paese d’origine

Se nel 2011 il 71% degli italiani era favorevole allo ius soli, oggi la percentuale è scesa al 54%. Il fulcro della questione è tutto qui: capire che lo ius soli riguarda gli italiani, non gli immigrati. Ragazze e ragazzi nati qui, cresciuti qui, che intendono per lo più restare qui, che sarebbero stranieri nel paese d'origine dei genitori. Persone i cui diritti civili sono oggi subordinati alla situazione economica delle loro famiglie, come sanno perfettamente coloro che possiedono un permesso di soggiorno.

Le testimonianze

Basta parlare con loro per far sbiadire le ombre della propaganda. D., originaria dell'Albania, è nata in Italia e ha potuto acquisire la cittadinanza nel 2012, quando anche i suoi genitori, dopo 10 anni di permanenza, hanno fatto richiesta e l'hanno ottenuta (situazione normata dall'articolo 14 dalla legge del 1992). «Non ho sentito un cambiamento, se non simbolico, semplicemente perché mi definisco italiana e sono integrata in questo Paese. Essere italiana è per me la vita di tutti i giorni».

C. è nata in Romania 19 anni fa, e sta ancora aspettando. «Ho vissuto più tempo qui che in Romania. Sono abituata a questo Paese e non tornerei mai indietro. Se non lo dico io, nessuno pensa che sia rumena. Anche i professori si stupiscono. D'altra parte, quando torno in Romania per le vacanze i parenti dicono che non sono più la stessa. È naturale: ormai faccio parte di un altro mondo». Un mondo che però ancora non le permette di vivere come i suoi compagni. «Quando c'è stato il referendum, lo scorso dicembre, ero tra le poche maggiorenni della classe, ma non ho potuto votare. Durante le discussioni intervenivo, ma la mia opinione era totalmente inutile, perché non avrebbe comportato alcun cambiamento. Vorrei dare un contributo al Paese, perché questa società mi ha offerto molte cose»

L’Italia è casa nostra

A., nata in Albania, sta aspettando che il padre diventi italiano per ottenere la cittadinanza. «Quando sono arrivata ero molto piccola e mi sentivo diversa. Non sapevo la lingua. Alle elementari avevo una maestra che mi prendeva da parte dopo scuola per insegnarmi l'italiano con schede e filastrocche. Adesso, dopo tanti anni, sento che l'Albania non è più casa mia. Non tornerei mai. A chi dice che con lo ius soli l'identità italiana verrebbe indebolita, rispondo proprio il contrario: ne uscirebbe rafforzata».

La stessa posizione la condivide anche A., italiana per “ius sanguinis” in quanto figlia di padre italiano e mamma polacca. «Il problema della cultura è relativo. Oggi con la globalizzazione, con l'Europa unita c'è un gran miscuglio, si va verso un'unica culturale composita. È bello meticciare la tradizione. A chi è contrario allo ius soli chiederei di mettersi nei panni di una persona che ha vissuto tutta la sua vita in un Paese e provare ad immaginarsi cosa significherebbe tornare nella sua terra d'origine. Perché magari succede come a me: torno in Polonia e lì vengo considerata una straniera.»

Uno sforzo d'immaginazione che forse è più difficile per gli adulti, ma tra ragazzi sembra non comportare grandi impedimenti. Come dice D.: «Credo che noi giovani siamo in genere più aperti mentalmente rispetto ai nostri legislatori, ai parlamentari. C'è una grande paura immotivata, diffusa dai media che rafforzano l'impressione del pericolo, dell'invasione. Ma noi siamo nati qui».

Lo “ius culturae”

T., nato in Macedonia e residente a Ravenna da 8 anni, potrebbe usufruire dello “ius culturae”: arrivi in Italia prima dei 12 anni, concludi un ciclo di studi e puoi far richiesta di cittadinanza. «Per altri 3 anni non se ne parla nemmeno di ottenerla. Compirò 18 anni, magari lavorerò, pagherò le tasse, ma non potrò votare. In Italia c'è stato un grande ritardo nella discussione su questi temi. Gli altri Paesi pensano già alle 3° e 4° generazioni. L'approvazione dello ius soli aumenterebbe la popolazione italiana, che è in rapida discesa, attirerebbe persone, talenti, forze nuove capaci di far fronte alla fuga dei cervelli. Senza contare l'apporto degli stranieri per l'economia italiana», che con i suoi 131 miliardi si attesta nel 2017 al 9% del Pil nazionale, secondo il recente rapporto della Fondazione Moressa.

Ma anche ragazzi più giovani, come Samantha e Steve, di 14 e 12 anni, nati in Italia da genitori camerunesi, sono lungi da non avvertire questi problemi. «Io mi sento italiana», dice Samantha, «giro con amici italiani, parlo perfettamente la lingua. Sono tornata poche volte in Camerun, e sebbene un po' di me sarà per sempre camerunese, sento che la mia vita è qui. Lo ius soli è giusto: un Paese senza culture è brutto. L'Italia sta cambiando, non bisogna avere le fette di prosciutto sugli occhi».

«Anche se non ho ancora la cittadinanza, io mi sento come tutti gli altri, non mi sento messo da parte. Ai miei amici non importa che io abbia la cittadinanza o no», racconta Steve.

Il Camerun è uno dei tanti paesi che non permettono di avere la doppia cittadinanza. «Se fosse possibile il contrario, mi piacerebbe averle tutte e due», confessa Samanta, «ma rinuncerei a quella del Camerun per prendere quella italiana».

Gandhi sosteneva che la grandezza di una nazione si misura attraverso il trattamento che riserva alle sue minoranze. Forse non siamo maturi abbastanza per diventare grandi; ma l'intelligenza dovrebbe bastarci per capire che avere paura dello ius soli significa avere paura di noi stessi.

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