«Difendo l'informazione locale perché è la voce delle comunità»

Rimini

MILANO. Non ci sono soltanto associazioni professionali e sindacati protagonisti della campagna nazionale “Meno giornali. Meno liberi”, ma anche singole figure di operatori culturali, intellettuali, docenti. Chiara Giaccardi, comasca, sociologa dei media, insegna all’Università Cattolica di Milano e risponde alle domande di una intervista sui temi che impegnano nove realtà in rappresentanza di 122 testate quotidiane e periodiche edite da cooperative editoriali e associazioni non profit.

Perché si è schierata senza esitazione dalla parte di questa fetta dell’editoria e del giornalismo italiano?

«Per convinzioni culturali, intellettuali, morali. Credo che sia molto grave quello che sta accadendo e spero che anche la mia voce serva a chiarire una situazione che contiene aspetti paradossali. C’è un gran pubblicizzare le forme strumentali della comunicazione, senza mai interrogarsi su chi ci sia dietro, nella produzione dei prodotti della comunicazione. Sembra quasi che ci siano solo fantasmi: il popolo senza volti che riceve l’informazione, gli addetti alla comunicazione senza volti che la producono. E poi mi sembra chiaro che chi come me da anni segue l’evoluzione dei media, anche sul piano delle scienze sociali, abbia visto con molto favore l’estendersi, soprattutto negli ultimi venti anni del secolo scorso, l’informazione dei territori locali anche attraverso la nascita di quotidiani e periodici locali».

In un’epoca nella quale la globalizzazione pervade tutti i settori, che senso ha difendere il localismo nell’informazione?

«È proprio perché la dimensione globalizzante produce disorientamento e spaesamento che i segni costruiti dall’esperienza umana di un territorio vanno salvaguardati. In Lombardia, per esempio, c’è una vasta presenza di settimanali cattolici, non solo diocesani, che sono la voce di vallate, di altipiani, di antica tradizione comunitaria. Fra quelle montagne le cose che succedono nei paesi vengono raccontate nelle interviste, nelle testimonianze, nei commenti di chi abita in quei piccoli Comuni. Spesso sono popolazioni anziane, non sono attive nelle comunità web e spesso non ci sono neppure le connessioni per collegarsi a internet... perché dovrebbero vedere morire le sentinelle dell’informazione che sono state create? Certo che difendo l’informazione locale, perché è la voce delle comunità e non dell’esasperato individualismo che domina gran parte della comunicazione solitaria, anche su web, dove c’è solo un “io” narcisistico che domina il dialogo, anzi che enfatizza il monologo, senza attendere la risposta né arricchendo il confronto».

Lei è a conoscenza del fatto che il Fondo per l’editoria presso la presidenza del Consiglio dei ministri ha decurtato i finanziamenti pubblici per il 2013, ha ulteriormente ridotto quelli per il 2014, e non previsto nulla per il 2015?

«Sì, perché seguo attentamente il dibattito sul quale mi informa il presidente della Federazione italiana settimanali cattolici (Francesco Zanotti, ndr) e sono molto stupita per la cecità di queste scelte. Non vedo quale sia il vantaggio nel perdere di vista l’obiettivo dell’articolo 21 che è non solo la libertà dell’informazione, ma anche la garanzia che esista. Fra l’altro le minoranze linguistiche che hanno dei loro organi di riferimento sia attraverso quotidiani, sia i loro periodici, a questo punto devono non più ritenersi cittadine e cittadini della Repubblica? Si dica allora più onestamente che lo Stato non interviene più nella materia dell’informazione. Temo invece che la realtà sia che il valore della libertà, dell’esperienza, della persona sia svilita rispetto a interessi più grandi, al diritto del più forte a rappresentarci tutti. Non funziona così una democrazia moderna, fondata sul dialogo e il pluralismo. Spero che si torni a ragionare in modo più costruttivo. Sempre che ci sia la volontà culturale e politica in questo momento storico. In ogni caso auguro che questa campagna di informazione e comunicazione raggiunga dei risultati concreti. Consideratemi una simpatizzante, un’attivista nel nome di una causa che considero buona e giusta».

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