"Ridente town. Scritture istantanee"

Rimini

 

FAENZA. Giovanni Nadiani da Faenza, poeta e traduttore, è un San Cristoforo dei linguaggi.

Li carica sulle spalle e li traghetta oltre il fiume, che sia quello tra italiano e dialetto, lingue “colte” e gerghi, jazz/blues e scrittura, accademia e bar… sempre in andirivieni, sarà per questo che risponde trafelato al telefono.

L’occasione è l’uscita del libro Ridente town. Scritture istantanee (Edizioni Risguardi), partitura in tre atti o meglio tre taccuini che dispone e mette in dialogo testi editi e inediti e si apre nel nome del maestro dell’aforisma, Ennio Flaiano. O meglio, di “La pipa di Flaiano. Taccuino inutile in progress”.

«Non sono degno nemmeno di accendergliela, la pipa» sorride Nadiani. «Adesso è stato riscoperto grazie al bel lavoro di Adelphi, ma per me da sempre è inarrivabile maestro di stile, acume e causticità».

 

“Ridente town” raccoglie tutti i generi della sua scrittura in italiano: aforisma, racconto, prosa breve…

 

«Vero. Il libro è nato per mettere in ordine e conservare materiali dispersi e disparati. Così parte degli appunti irregolari della prima parte è già uscita sul blog Nazione Indiana, mentre “Stories from Ridente town. Taccuino narrativo d’occasione” comprende racconti brevi pubblicati sul magazine Gagarin e “L’ironica armonia. Taccuini di viaggio e di sosta” quella scrittura di viaggio che mi accompagna da sempre, le mie nonstorie. Testi giocati con il ricorso ai metri poetici, al lavoro fonico sul linguaggio, che andrebbero letti ad alta voce. Taccuini, perché ogni mio progetto nasce da quadernini su cui scrivo a mano, con una stilografica. Non è stato facile trovare un editore. In Italia c’è un’idiosincrasia verso le forme brevi, che in un piccolo spazio dicono un universo e fanno parte invece della nostra più autentica tradizione letteraria. Tutti chiedono il romanzone gonfio. Ma questo nostro esperimento, che il 23 maggio presenteremo con un reading alla Bottega Bertaccini libri e arte, a Faenza (e l’11 giugno a Lugo, al Caffè letterario), ha già avuto buoni riscontri.»

 

Uno dei “personaggi” ricorrenti, in questo libro, è Giona…

 

«La figura di Giona è ibrida e multiforme, e qui torna come maschio, come femmina, senza un’età definita. Forse perché ha un’identità polimorfa – sembra un ossimoro! – come le comunità locali d’oggi. Di cui l’uso linguistico è specchio e che io cerco di rappresentare nel mio lavoro “meticciando” linguaggi e generi letterari… D’altronde viviamo in un’epoca di passaggio, che ha subito una trasformazione accelerata. È autobiografico, questo Giona? Diciamo che mi somiglia, perché in qualsiasi cosa scrivi c’è autobiografia. Ma io sento il sé più come un filtro della realtà, che ti permette di immedesimarti nelle storie che senti in giro, come in Romagna succede, di diventare la badante, l’uomo del bar...».

 

Perché dedica l’apertura all’errore?

 

«Spesso ci dimentichiamo del dolore che arrechiamo agli altri, delle ferite che si infliggono parlando e possono essere profonde, magari non premeditate ma legate al nostro limite umano, all’essere fragili. Occorre giocare il gioco dell’umiltà, rendersi conto degli errori fatti e comportarsi in modo diverso. E a volte basta un piccolo gesto…».

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