L’everyman Dante porta la luce anche nell’Africa più oscura

Rimini

Dante è arrivato in Kenya. A Nairobi, nello slum di Kibera. Grazie a Marco Martinelli, regista e drammaturgo del Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, alla collaborazione di Laura Redaelli, alla Fondazione Avsi, “Il cielo sopra Kibera” ha debuttato a Nairobi a inizio ottobre. Centocinquanta bambini e ragazzi hanno partecipato a questo progetto, che nasce dai principi della non-scuola.

Dal racconto di Marco Martinelli traspare tutta l’emozione di questo straordinario progetto.

Che cosa è successo in questi mesi in Africa?

«La Divina Commedia in uno degli slum più grandi dell’Africa. I dirigenti di Avsi avevano visto il lavoro che avevo fatto a Milano con Eresia della felicità e mi hanno invitato. Quando mi hanno raccontato di Kibera sono rimasto sedotto dalle loro parole: là è veramente una situazione estrema di degrado urbano, un vero e proprio inferno. Ezra Pound dice che Dante è l’everyman, ognuno di noi: un uomo perso nella selva oscura, delle sue paure, delle sue disperazioni, dei suoi errori. Però aspira ancora alla luce e troverà le guide che lo faranno uscire. A me è bastato raccontare questo, e loro mi hanno detto “ma questi siamo noi, l’inferno è qui, a Kibera”».

«È stato un doppio movimento – continua Martinelli –: portare là la nostra storia perché loro la prendessero, se ne appropriassero e inventassero loro i gironi dell’Inferno dantesco, che erano molto in consonanza con quelli originali: i politici pare siano corrotti oggi come allora, in Kenya come in Italia, e in più hanno messo delle figure caratteristiche di quella selva – perché poi ho scoperto che Kibera significa “selva”».

Poi come avete costruito lo spettacolo?

«Io ho scritto un prologo, in cui ho immaginato un Dante che si presenta al pubblico in swhaili e dice: “Salve, io sono Dante Alighieri, sono nato nel 1265 a Firenze, mi occupo di teologia, astronomia, poesia, mi piace disegnare angeli e la mia pelle è bianca”. Chiaramente tutti ridono e da lì parte il racconto. Dopo questo prologo, l’Inferno lo abbiamo costruito con le figure dei violenti, dei drug pusher, dei falsi amanti. Quando siamo arrivati alla fine dell’Inferno, al male più grande, a Lucifero, ho chiesto quale fosse il male più grande a Kibera e mi hanno risposto che è il male fatto ai bambini, il rapimento, la violenza, i bambini di strada. Da lì si passava al Purgatorio, che in Dante è il luogo dei poeti, e lì recitavano versi di Dante, di Emily Dickinson, di Maiakovskij, del poeta keniota Raymond Ngeny. Il Paradiso era un lampo, il XXXIII, la preghiera alla Vergine».

Le Albe hanno un rapporto speciale con l’Africa, a partire da Mandiaye Ndiaye.

«Quando è morto Mandiaye, io ed Ermanna avevamo l’impressione che questo rapporto con l’Africa si fosse chiuso. Invece, grazie al mistero delle cose e delle creature, Alessandro Argnani e Moussa Ndiaye hanno riaperto con Thioro. Un Cappuccetto Rosso senegalese. Dall’altra parte, è arrivata questa chiamata da un’altra Africa che aveva qualcosa a cui non ho potuto dire no. E sono pieno di emozione e di commozione per questo viaggio».

Quale è stata la reazione del pubblico?

«Avevamo sempre circa settecento persone. Hanno sentito subito che, come dice Orazio, de te fabula narratur, che quella favola parlava di loro, che i loro figli non erano lì a fare le marionette di un testo italiano, occidentale, ma erano lì perché quella storia parla loro e tocca corde che sono nella loro anima».

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