Una spy story tra l’Urss e Ravenna per capire il Pci e il post comunismo

Rimini

RAVENNA. Una vicenda che amalgama il racconto del passato del nostro Paese con la lucida analisi della contemporaneità, una storia capace di arrivare al cuore di un pubblico assai diversificato, una narrazione avvincente e assai ben bilanciata.

“L’uomo di Mosca” (Baldini+Castoldi) – che verrà presentato il prossimo lunedì 10 settembre (ore 19) in occasione della Festa nazionale dell’Unità a Ravenna – è il primo romanzo di Alberto Cassani, ravennate classe ’65, per anni assessore alla Cultura di Ravenna, e successivamente coordinatore della candidatura a Capitale Europea della Cultura 2019.

Il testo assume la forma della spy story per narrare una vicenda ambientata tra la città dei mosaici e la capitale dell’ex Unione Sovietica, una storia che spinge il protagonista – figlio e nipote di storici militanti comunisti, convertito senza grandi entusiasmi alla quotidianità della borghesia di provincia – a far luce sul racconto del nonno Mario, a lungo tesoriere del partito a Ravenna, per dissipare le ombre sui misteriosi legami tra la città romagnola e l’URSS.

Andrea Cecconi – interrogandosi sull’origine e sul percorso di alcuni finanziamenti provenienti da Mosca e diretti al Pci, e riflettendo sulla evoluzione contemporanea della res publica – si ritroverà così a vivere una ricerca tormentata, capace di sovrapporre diversi piani temporali (dagli anni ’70 fino al nostro presente), in un susseguirsi di incontri misteriosi con presunte spie, esponenti della massoneria, faccendieri, servizi segreti, nel tentativo di ritrovare ciò che è rimasto in sospeso dal lontano 1991.

Cassani, quale è stata l’origine del testo e da dove nasce la spinta a misurarsi con la narrazione?

«Ho sempre avuto una passione letteraria, ma solo quando si è alleggerito l’impegno politico si sono create le condizioni per intraprendere questo percorso. Ho scelto la falsa riga di una spy story con l’intento però di andare oltre il genere».

Andrea Cecconi è un avvocato sulla cinquantina con alle spalle un passato da assessore a Ravenna e con alcuni tratti che inevitabilmente rimandano al suo autore. Quanto c’è di autobiografico nel suo protagonista?

«Ritengo inevitabile che i testi contengano una dose di elementi autobiografici ed è quindi innegabile che il protagonista conservi tratti caratteriali ed esperienziali che lo collegano alla mia vita. È però altrettanto evidente quanto poi le esigenze di fiction e di fantasia abbiano spinto il personaggio ad allontanarsi dalla mia persona e assumere tratti maggiormente funzionali alla vicenda. È certo però che questo romanzo nasce dalla mia intima esigenza di raccontare e mettere a fuoco in modo autentico alcune considerazioni, dando vita ad una narrazione in cui si mescolassero il diario intimo, la riflessione politica, la storia familiare, il racconto della vita di provincia: una parte dei lettori saprà godersi l’aspetto più prettamente narrativo, mentre altri coglieranno anche il messaggio di fiducia nella letteratura in quanto parola meditata, capace di raccontare esperienze, storia, vita.

La storia dimostra quanto il Pci sia stato decisivo per il nostro Paese reduce dalla guerra, ma ne ha altresì messo in luce l’operato non sempre trasparente, derivante – secondo le parole del nonno Mario – dalla stessa “imperfetta” natura umana. Senza scivolare in anacronistiche e sterili stime di valore, in che cosa risiede la differenza tra il modo di vivere la politica di quel periodo e le modalità che si respirano nella nostra contemporaneità, un mondo che – stando alle parole del protagonista – “è vincolato al giorno per giorno... senza utopie e senso della storia”, dominato da un inconsolabile “vuoto pneumatico”.

«Nel libro volevo evitare qualsiasi forma di manicheismo e i miei personaggi, caratterizzati da “toni grigi”, mai positivi o negativi in senso assoluto, ne sono la dimostrazione. Ho cercato piuttosto di riflettere sulla presenza di ideali, di precisi valori e di una visione comune che alimentavano e nobilitavano la funzione di quel partito in quel preciso contesto storico. Da sempre la politica è animata dal “fine che giustifica i mezzi”, ed è proprio la dialettica tra fini e mezzi che regala sostanza al confronto politico. Ciò che si può rimpiangere è la tensione collettiva di allora, più finalizzata al bene comune e meno individualista, contrapposta ad un presente in cui il rapporto con il passato ed il futuro è in costante crisi, un mondo in cui si vive ripiegati in una dimensione tendente al privato, all’hic et nunc».

Il suo è un protagonista disincantato verso il presente, caratterizzato dal crollo delle ideologie, dall’affermarsi dell’individualismo e di mass media che influenzano la vita sociale ed economica, dalla disaffezione verso la res publica, e dalla mancanza di lucidità. Qual è il suo punto di vista nei confronti del modo attuale di intendere la politica, e quale ritiene potrebbe essere la strada giusta per uscire dall’empasse attuale?

«Non ho ricette pronte e non mi interessa operare una sterile retorica. Siamo entrati in un tunnel da cui sarà difficile uscire in tempi brevi. Come il protagonista del mio libro, sono disilluso ma non certo rassegnato: Cecconi necessita di un costante dibattito con l’“altro”, da parte mia sono certo che la via corretta sia quella di creare spazi per il dibattito pubblico, un dialogo che sappia intercettare i veri bisogni e coinvolgere, e che necessita di tempo per maturare argomenti in grado di superare le facili semplificazioni, gli sterili slogan e le facili contrapposizioni. La letteratura può aiutare in questo cammino perché stimola empatia e riflessione, indispensabili per comprendere meglio il passato e il presente, e affrontare meglio il futuro».

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