Dal teatro alla Mostra di Venezia un Cappuccetto Rosso interculturale

Rimini

RAVENNA. Ravenna sbarca a Venezia passando per il... Senegal. La regista ravennate Maria Martinelli ha da poco presentato alla 75ª Mostra del cinema il suo corto “Dem Dikk Africa” (Africa andata e ritorno), 15 minuti girati insieme agli altri due autori, Alessandro Argnani e Moussa Ndiaye. Il corto è arrivato a Venezia dopo aver vinto (con altri 26) il bando “MigrArti” del Ministero per i beni e le attività culturali, e anche grazie al sostegno della Film commission della Regione Emilia-Romagna.

Prodotto da Kamera Film in collaborazione con le associazioni Takku Ligey Ravenna, Kër Théâtre Mandiaye N’Diaye, Ravenna Teatro – Teatro delle Albe e Start Cinema, il documentario racconta la storia di tre giovani senegalesi che vengono in Italia con una borsa di studio per realizzare uno spettacolo teatrale insieme a un attore e a un regista italiani. Lo spettacolo, dal titolo “Thioro la bambina scalza. Un Cappuccetto Rosso senegalese”, inizia qui la sua creazione e la sua tournée per proseguire però in Senegal. Il loro desiderio è di realizzare in Italia un’esperienza che possa vivere e crescere successivamente nella loro terra alla quale vogliono tornare. Da qui il titolo per un’Africa non a senso unico, sulle tracce del sogno del padre di uno di loro, Mandiaye N’Diaye, attore della ravennate compagnia delle Albe scomparso due anni fa. Un sogno qui raccolto dal figlio Moussa.

Martinelli, tutto parte dalla pièce “Thioro la bambina scalza. Un Cappuccetto Rosso senegalese” delle Albe di suo fratello Marco Martinelli e Mandiaye Ndiaye.

«Sì, tutto nasce tanti anni fa dall’esigenza teorica di Ravenna Teatro di elaborare progetti di cooperazione con l’Africa. Questa spinta culturale ha fatto sì che le Albe sviluppassero questo rapporto lungo il corso di 30 anni. È così che è nato il Kër Théâtre: uno dei fondatori è Moussa Ndiaye, figlio di Mandiaye che porta avanti lo spirito filosofico del padre. La messa in scena è l’occasione per parlare di questa interculturalità, un mix Italia-Senegal. Nel Paese africano stanno continuando a portare lo spettacolo in tournée e poi in primavera torneranno in Italia. Abbiamo partecipato al bando “MigrArti” venendo selezionati su 137 partecipanti e poi ancora scelti tra i 12 che sono stati presenti a Venezia domenica e lunedì scorsi, ottenendo un’ottima risposta dal pubblico. A dicembre sarà proiettato nell’ambasciata d’Italia in Senegal. Fino ad allora girerà nei festival internazionali. E poi in primavera lo spettacolo teatrale torna in Italia dove andrà in tour e prima dello show sarà proiettato il corto».

Come definirebbe questa operazione? Una forma culturale di “aiutiamoli a casa loro”, un nuovo modo di accogliere e ricambiare? Come?

«Sapevano che con il nostro messaggio rischiavamo un fraintendimento. Parlando di intercultura potremmo essere strumentalizzati ma non ci preoccupa. Non nasce da noi, ma fortemente da Ndyaie padre, migrante venuto in Italia e che ha avuto successo come attore ma ha continuato a pensare al suo villaggio d’origine per creare un ponte, un rapporto proficuo tra culture che si intrecciano, un meticciato culturale. Lo spettacolo e il film sostengono questa posizione. Il figlio di Ndiaye è nato qui in Italia e non era mai stato in Senegal. Ma suo padre gli ha fatto conoscere il suo Paese d’origine. Noi diciamo c’è anche questo nell’immigrazione. Se non sono gli africani a cambiare l’Africa, chi la cambierà? È un messaggio complesso ma il racconto è semplice. Il corto si chiude con il ritorno dei protagonisti a casa in Senegal dove fanno teatro con le loro famiglie».

Il tutto rientra nel progetto “MigrArti” del ministero della Cultura italiano. Ma, visti i tempi che corrono, troverà un seguito secondo lei?

«Secondo noi, proprio per i tempi che corrono, questo progetto deve andare avanti. L’unico problema vero è scambiarsi pensieri, comunicare, loro vogliono rifarlo. I corti selezionati a Venezia andranno in giro per il mondo, saranno proiettati nelle scuole. In un passaggio i ragazzi dicono: “Forse siamo troppo neri? I bambini avranno paura di noi?”. Ma sono andati in posti dove non avevano mai visto un uomo di colore e sono subito diventati amici».

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