«Libertà e partecipazione attiva alla vita.Tutti dovremmo ispirarci a Pippo Fava»

Rimini

FORLÌ. Ha un sorriso sincero e semplice, ma anche forte e determinato Dario Aita, il giovane attore palermitano che venerdì 24 agosto alle 21 in Piazzetta della Misura a Forlì sarà ospite alla proiezione di Prima che la notte di Daniele Vicari, il film che lo vede tra i protagonisti della storia sul giornalista Pippo Fava ucciso dalla mafia che è stata raccontata il 23 maggio scorso su Rai1. Aita è conosciuto e amato dal pubblico; lo abbiamo visto recentemente nella fiction campione d’incassi e ideata da Pif La mafia uccide solo d’estate, oltre che in Questo nostro amore con Neri Marcorè e L’allieva con Lino Guanciale. Dario ha creduto fortemente al suo sogno, quello di fare l’attore, lasciando anche la sua terra, la Sicilia, per inseguirlo.

Aita, sarà a Forlì per la proiezione del film “Prima che la notte”. Quali sono stati i motivi a spingerla a dire sì a questo film?

«È stato uno dei progetti più interessanti ai quali ho preso parte. Questa storia è centrale per tematiche che mi stanno a cuore come la libertà di stampa, la lotta alla mafia e l’impegno sociale e culturale che ognuno dovrebbe assumersi l’onere di praticare. La sua storia è ancora oggi poco conosciuta e l’idea che se ne facesse un film mi ha entusiasmato da subito. A questo si unisce la figura di Daniele Vicari, un regista che ho sempre apprezzato e che speravo di poter incontrare e infine il cast a partire da Fabrizio Gifuni, un meraviglioso esempio di professionalità, competenza e passione».

Veste i panni di Claudio Fava. Come si è preparato?

«Sono partito dalla sceneggiatura. Ho provato ad approcciarmi a lui come un personaggio di finzione. Questo mi ha aiutato ad alleggerire il senso di responsabilità che avevo nei confronti di questa storia e a identificare i temi universali che incarnava questo personaggio. Ho poi visto molte sue interviste e ho letto molti suoi libri».

Cosa rappresenta per lei Giuseppe Fava?

«Un grande esempio di artista poliedrico, un uomo che incarna un idea potente e non banale di libertà e di partecipazione attiva alla vita: tutto ciò a cui ognuno di noi dovrebbe aspirare».

Qual è e quale dovrebbe essere il compito del giornalismo?

«Pippo Fava ha scritto un intenso editoriale contenuto anche in parte nel film e che gli è costato il posto di direttore al Giornale del Sud; il giornalismo ha un ruolo fondamentale nella società. Ancora oggi il valore rimane lo stesso: un mezzo necessario a formare e informare il corpo sociale e cambiare materialmente gli eventi. Con i nuovi media l’informazione è stata ulteriormente inquinata da spam, bufale, strumentalizzazioni e mistificazioni. Oggi più di ieri dovrebbe emergere un giornalismo che riesca a distinguersi in questo mare magnum di volgarità e disinformazione».

Qual era il rapporto tra Pippo Fava e i giovani?

«Fava sapeva benissimo quanto i giovani avessero un ruolo determinante: è dal basso che inizia il cambiamento. Ha creato una vera e propria scuola di giornalismo; la sua redazione era una bottega in cui i più giovani potevano imparare, con la pratica e il confronto, il difficile mestiere dell’informazione».

L’abbiamo vista recentemente nella fiction “La mafia uccide solo d’estate”. Cos’ha significato farne parte?

«È un progetto che amo profondamente, ne sono uno spettatore appassionato. Con il regista Luca Ribuoli si è creata un’intesa che ci permette di divertirci moltissimo e di creare insieme con una semplicità rara. stato un progetto pieno di persone che ci hanno creduto profondamente».

Da siciliano, come definirebbe la criminalità organizzata? Come nasce, e perché?

«È lo spazio tra il potere e la miseria. Dove sono presenti, ci sono le mafie; che non è un concetto, ma è fatta da uomini e donne che si dedicano al crimine».

Pif è stato colui che ha rivoluzionato il modo di raccontare la mafia al cinema e in tv. È così?

«Da buon siciliano, conosce il fenomeno mafioso nei suoi aspetti più quotidiani. Chi non è nato in Sicilia ha un’idea filtrata dalle immagini di cronaca, letterarie e cinematografiche. Un palermitano riesce a vedere la mafia nei suoi aspetti più intimi, come se fosse i n pantofole appena alzata dal letto. Questo ci permette di osservare aspetti più ridicoli e banali del fenomeno. C’è un indiscutibile aspetto prosaico e grottesco. Pif è riuscito a trasferire in immagini questa visione».

È stato tra i protagonisti di “Questo nostro amore” nelle vesti di Bernardo Strano. Ci racconta meglio di com’è cambiato nel corso delle tre stagioni televisive?

«Bernardo è un giovane siciliano che si trasferisce a Torino per lavorare in fabbrica con il padre; lì incontra e si innamora di Benedetta, la sua vicina di casa, una giovane studentessa, espressione massima degli anni ’60, del fermento culturale e dell’emancipazione femminile. Lo scontro tra i valori del mondo rurale del sud e quelli delle grandi città alle soglie degli anni 70 renderanno il loro rapporto amoroso conflittuale ma molto intenso, tanto da condurli all’altare».

La fiction si sviluppa negli anni ’60, ’70 e ’80. Che idea si è fatto di quegli anni?

«È un momento importantissimo nella storia del nostro Paese: si passa dalle speranze degli anni ’60, alla violenza degli anni ’70, alla rinuncia dei valori collettivi e alla scoperta dell’individualismo e dell’edonismo negli anni '80. Ancora oggi stiamo cercando di rielaborare quel passaggio così svelto e destabilizzante».

Lei è palermitano e ha lasciato molto presto la sua terra. Cosa porta con sé della Sicilia e cosa invece lascia?

«Porto con me lo scirocco, l’odore delle alghe, le voci potenti, le statue nude, la generosità e un piccolo allarme costante. Lascio l’indolenza, la presunzione di perfezione di cui parlava Tomasi di Lampedusa e che impedisce ai siciliani di cambiare e la necessità animale di prevaricazione. Con me sarà il mare e non il male».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui