Spegnersi per poi risorgere: infinite possibilità per andare a capo

Rimini

RIMINI. Stefano Lunedei, nato a Meldola ma riminese d’adozione, è un insegnante d’inglese, poeta, autore di racconti e – da quest’anno – scrittore di romanzi.

Dopo oltre quindici anni dedicati esclusivamente alla poesia e dopo Come cinque stagioni – libro di storie brevi uscito nel 2015 – lo scrittore sceglie la casa editrice riminese Bookstones ed esce nella collana di narrativa “Spifferi”, con Due Tiri, romanzo che verrà presentato questa sera (ore 21 al Museo della Città nel giardino del lapidario), con la presenza dell’autore, dello scrittore Paolo Vachino e dell’attrice Simona Matteini, che leggerà qualche brano tratto dal libro.

La storia – che ha conosciuto un processo di stesura, durato oltre tre anni – è incentrata sull’omonimo protagonista, ragazzo sensibile che, dopo aver trascorso indenne l’adolescenza, vive situazioni sempre più complesse, dissolute, critiche, ritrovandosi a scegliere di divenire un senzatetto, per non morire, schiacciato dalle proprie dipendenze.

Per quale motivo ha deciso di passare dalla poesia alla narrativa, e quale è stata l’esegesi del libro?

«Sentivo di aver dato il massimo nel campo della poesia. Avevo bisogno di nuove sfide, di misurarmi con qualcosa di totalmente nuovo, che ha preso in primis la forma del racconto, per poi svilupparsi in un testo più corposo. È nato così un libro, che riprende due personaggi a me molto cari – Due Tiri e Margherita, principale figura femminile – presenti nella raccolta scritta anni fa, in cui i personaggi valicavano i confini delle singole storie, passando da un racconto all’altro e trasformandosi da attori secondari in figure protagoniste. In quel testo i due personaggi non si incontravano, come accade invece nel mio romanzo, in cui ho deciso di creare una storia di formazione, incentrata sulla tematica della seconda scelta, delle infinite possibilità che ognuno di noi attraversa lungo la propria esistenza. Il protagonista, ogni volta che cambia nome e fase della propria esistenza – passando da Patrizio, a Due Tiri, a Scia, a Triz – decide di “morire”, di cambiare pelle, scegliendo alla fine di divenire ultimo tra gli ultimi per salvarsi dalla dipendenza dal gioco, dalla droga, dal senso di colpa, dalla spirale di aberrazione che ne caratterizzava la quotidianità, dalla corazza che ne ha imprigionato l’animo, trasportandolo in un baratro di dolore. Solo così ricomincia a vivere davvero, solo così può esserci la possibilità di nuovi incontri, emozioni, esperienze: il cambiar nome è l’espressione della necessità di “andare a capo”, spegnersi per poi risorgere. Il finale aperto – in cui il protagonista, reo di un omicidio, trascorre la notte con la cinica, sensibile e fiera Margherita – è stata scelta funzionale al messaggio che intendevo trasmettere: nella nostra esistenza può continuamente cambiare ogni aspetto, la libertà umana sta proprio in questo costante fluire di scelte e opzioni. Ho deciso di consegnare al singolo lettore il destino di Due Tiri, la possibilità per lui di risorgere o affrontare un nuovo baratro».

Il suo stile, calibrato e consapevole, utilizza una narrazione veloce, asciutta, che si serve spesso – soprattutto nei dialoghi – di una ironia sagace. Un modus narrandi che rimanda da un lato al cinico realismo – talvolta addirittura splatter – degli scrittori “cannibali”, dall’altro a note più intimiste, che fanno pensare al “Blues in sedici” di Stefano Benni. Quali sono i modelli sottesi a “Due Tiri”?

«Ho sempre amato l’ironia raffinata di Benni, la scrittura surreale di Alberto Savino e di Giorgio Manganelli, la poliedricità di Michele Mari; inoltre, in qualità di insegnante di inglese, è innegabile il mio protendermi verso l’“atteggiamento obliquo”, finemente ironico, che caratterizza gli autori anglosassoni, capaci di far emergere, con maestrale cinismo, anche gli angoli più oscuri e insondabili che albergano in ciascuno di noi, e così abili nel rendere l’incessante sliding door che caratterizza il vivere».

Perché – come sosteneva Albert Camus – «l’uomo di per sé non è nulla. È solo una possibilità infinita. Ma è il responsabile infinito di questa possibilità».

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