«Arte, non decorazione: una geografia della scultura contemporanea»

Rimini

FAENZA. Il 1938 non è passato alla storia per la sua allegria. Leggi razziali, notti dei cristalli, visite di Hitler a Roma. Ma il 1938 è anche l’anno dello scherzo all’America di Orson Welles, che scatena la psicosi collettiva coll’adattamento della “Guerra dei mondi”. E per avvicinarci ai nostri territori, è l’anno di pubblicazione del “Manifesto futurista della ceramica” di Marinetti e D’Albisola. Nell’ottica propagandistica del regime fascista, la ceramica diventa arte decorativa, «destinata alle masse», espressione del genio artigianale italico.

È questa la temperie culturale in cui nacque il Premio Faenza, indetto allora per la prima volta dal Mic, guidato dal fondatore Gaetano Ballardini, che raggiunge quest’anno l’inusuale traguardo degli 80 anni divisi per 60 edizioni. Sotto la guida della direttrice Claudia Casali, classe ’71, l’istituto faentino festeggerà l’anniversario con una grande mostra, “Ceramics now”, che verrà inaugurata il prossimo 29 giugno. Più di un “semplice” concorso, la mostra sarà una vera biennale della ceramica, e cercherà di fotografare lo stato dell’arte gettando uno sguardo panoramico per includere gli artisti provenienti dai più diversi paesi del mondo (info: micfaenza.org).

Quest’anno ci aspettano 17 curatori e una cinquantina di artisti. Dal punto di vista numerico questa edizione si distacca molto dalle precedenti?

«Le edizioni sono state molto altalenanti negli anni. Alcune hanno visto la partecipazione di 30 artisti; l’ultima ne contava un centinaio. Quest’anno ne avevamo selezionati 60, per 60 edizioni, ma alcuni hanno dovuto rinunciare: siamo arrivati a 54, tutti di assoluto spicco nel panorama dell’arte contemporanea, con tratti misti».

In che senso?

«Penso a Salvatore Arancio, che sta lavorando la ceramica in maniera molto interessante, ma che nasce come fotografo. Questo è il senso del premio: attraverso questi artisti, ospitati dalle più grandi collezioni mondiali, si vuole tracciare una geografia della scultura contemporanea».

L’internazionalità è evidente: si passa dalla Turchia a Israele; dalla Nigeria al Giappone. Ma la sua linea curatoriale è caratterizzata anche per l’attenzione nella distinzione fra due ambiti: da una parte la ceramica come arte decorativa, dall’altra come arte tout court.

«Sì. Il Premio Faenza nasce nel ’38 con l’idea di collaborare con l’Ente nazionale per l’artigianato e le piccole industrie (Enapi), che si occupava della promozione dell’artigianato a supporto della grande creatività italiana. Questo era l’obiettivo di Ballardini, che viene subito smentito col premio della prima edizione: nel ’38 Pietro Melandri vince con un pezzo unico. Negli anni, come spiega Giuseppe Liverani, i vincitori sono stati sempre di più gli artisti cosiddetti “puri”, ovvero gli scultori non ceramisti. Questo è stato il grande cambio di rotta».

E poi?

«Solo nell’ultimo ventennio abbiamo acquisito una nuova concezione estetica e critica della ceramica. I critici che si sono formati negli anni Sessanta e Settanta erano legati all’idea di una gerarchia delle arti, divise fra maggiori e minori. La ceramica era considerata un’arte decorativa. Ancora nel 1984, alla triennale di Milano, il Mic è presente con una mostra importante, ma dal titolo completamente sbagliato: “Le arti decorative”».

In che senso sbagliato?

«È sbagliato concettualmente: se esibisci i vincitori del Premio Faenza, fai vedere al pubblico artisti del calibro di Leoncillo, Fontana, Chapallaz. Sono scultori a tutti gli effetti, non è arte decorativa! Nel ’85 c’è stata la rottura definitiva con la vittoria dello scultore giapponese Sueharu Fukami. È lui che ha alzato l’asticella. Da allora di ceramica si è cominciato a parlare molto di più: pensiamo a Bertozzi & Casoni, Paladino, Ontani; ma c’è voluto lo sforzo di una giovane generazione di critici per creare progetti curatoriali in cui la ceramica non venisse considerata alto artigianato, ma avesse una propria unicità artistica, come tutti gli altri linguaggi della contemporaneità».

Qual è allora il ruolo delle botteghe artigiane?

«È un ruolo importantissimo: tanti artisti si affidano alle abili mani degli artigiani, che possiedono una tecnica straordinaria. Lo stesso Arancio lavora alla Bottega Gatti e ha bisogno di un supporto artigianale per realizzare le sue sculture. Non è facile per un artista avere tutte le “facilities” di una bottega di ceramica. Ma bisogna cominciare a distinguere meglio la produttività strettamente legata al pottery e al design dal linguaggio artistico».

Questa concezione della ceramica come arte minore è un’anomalia italiana?

«Direi più europea. Nei paesi asiatici si è già sdoganata da un po’ questa gerarchia delle arti. In Giappone esiste il riconoscimento del “maestro d’arte”, che ogni anno può essere un autore della ceramica, un pittore, un incisore. È un’impostazione che ci deriva dalla critica ottocentesca, ma la stiamo superando».

Nella sua presentazione della mostra si parla infatti di un «superamento dei territori disciplinari». Cosa significa concretamente per l’arte della ceramica?

«All’epoca di Ballardini e per lunga parte del Novecento c’è stata l’idea di tenere i ceramisti separati dagli scultori. C’è una famosa battuta di Fontana, che disse: “Sono uno scultore, non sono un ceramista!”. Era collegata a questo bisogno: smettetela di considerarmi uno che usa la ceramica per fare del pottery!».

Quali saranno i punti di forza della mostra?

«Le varietà poetiche. Il visitatore potrà apprezzare tanti modi di fare scultura in ceramica oggi. Stiamo cercando di realizzare un allestimento che lavori sui contrasti: accostare un minimalista a un figurativo, un gestuale con un artista pop. Serviranno per entrare nella materia senza perdersi: il visitatore avrà sempre la guida di didascalie commentate con le frasi degli artisti, per orientarsi in questo “mare magnum” poetico ed espressivo».

Di che salute gode l’arte della ceramica oggi?

«C’è una grande attività internazionale. Ma anche a livello nazionale abbiamo tante presenze in mostre collettive. Dobbiamo cercare di non ghettizzare quest’arte facendo mostre solo di sculture di ceramica. Quando pensiamo una mostra vogliamo mettere insieme più voci e poetiche: questo è il senso del mio lavoro. Si può vedere tanta ceramica in molte biennali, a Venezia, ad Artissima, a Miart: vuol dire che stiamo lavorando bene. Siamo noi curatori e direttori di musei che dobbiamo dare il passo».

Avrà conosciuto tanti artisti che si sono dedicati alla ceramica, magari sviando da tecniche a cui erano più abituati. Perché ci si dedica alla ceramica, secondo lei? Cosa attrae l’artista in questa materia?

«Ontani diceva che la ceramica è “fragilmente agile”. In una società che ti impone la velocità d’esecuzione e l’immediatezza, gli artisti apprezzano il ritorno a una manualità lenta. Lavorare con la ceramica significa immergersi, fermarsi, rispettare i tempi ben precisi di una materia che ci racconta secoli e secoli di civiltà. La ceramica ha i suoi tempi: di riflessione, si asciugatura, di cottura. Tutto questo è affascinante – è un percorso spirituale, se vogliamo».

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