«Oggi ci sarebbe bisogno di una tempesta che purificasse tutto il male del mondo»

Rimini

FORLÌ. Quando risponde al telefono la sua voce è calda e profonda, di una gentilezza quasi d’altri tempi. L’attore forlivese Massimo Foschi, classe 1938, è interprete d’elezione per maestri del teatro quali Giorgio Sthreler, Luca Ronconi o Gabriele Lavia. La sua carriera di attore si snoda tra teatro e cinema. Quello a cui ha preso parte è un grande schermo fatto da mostri sacri come Luchino Visconti, Gian Maria Volontè, Vittorio Storaro, Elio Petri o Giuliano Montaldo. Quelle che ha regalato a un pubblico sempre molto vasto sono emozioni arrivate grazie alla sua voce, perché Massimo Foschi è anche un eccellente doppiatore.

Dopo una lunga carriera, chi è oggi Massimo Foschi?

«Come uomo, è un vecchio signore che crede di essere ancora giovane; come interprete, è un attore anziano che ha sempre la voglia di mettersi in gioco perché di fatto gli esami non finiscono mai, soprattutto per il suo mestiere».

Si iscrive all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico nel 1959. Quando ha preso la decisione di entrare a far parte di mondo dell’arte?

«In quel periodo, amavo molto la poesia. Mi ero iscritto alla facoltà di Economia e commercio ma ben presto ho capito che quella non poteva essere la mia strada. Sono andato a fare il servizio militare e contemporaneamente studiavo per prepararmi all’esame di ammissione all’Accademia; se l’avessi superato, avrei seguito questa strada, altrimenti sarei andato a lavorare nell’impresa edile di mio padre. Fortunatamente il mondo del teatro mi ha voluto con sé. La mia è una vera e propria professione; attraverso la recitazione sono riuscito me stesso».

Che cosa è cambiato rispetto ad allora nel modo di apprendere la recitazione?

«Credo che ognuno sia figlio del proprio tempo. Frequentare una scuola di recitazione è fondamentale per dare un’impronta e avere una formazione ben solida. Oggi, secondo me, i giovani sono troppo presi dall’immagine, incuranti dell’essenza e del contenuto. I programmi che oramai popolano la tv non fanno altro che alimentare l’ego di molti ragazzi che, giustamente, si godono ogni singolo attimo cercando di dare prova del loro saper cantare o recitare; in realtà diventano solo personaggi pubblici, il che non equivale ad avere talento».

Eduardo De Filippo affermava che il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita. È d’accordo? Che cos’è per lei il teatro?

«Ha più che ragione. Il teatro è lo specchio del tempo in cui viviamo; sul palcoscenico vediamo molto spesso raccontata l’epoca in cui esistiamo, un’epoca tristemente nota a mio avviso. Gli spettatori vedono narrato un periodo triste per la nostra Italia dove le grandi menti del passato non esistono più; al loro posto, molto spesso le gesta di una cattiva politica».

Ha recitato per molta opere teatrali, tra cui “La tempesta” di Shakespeare, diretto da Giorgio Strehler, un vero e proprio colosso per il teatro. Cos’ha rappresentato Strehler per il teatro, e qual è oggi la vera tempesta?

«Il suo “Arlecchino servo di due padroni” è ancora portato in scena. Aveva la straordinaria capacità di leggere i testi e di avere un orecchio musicale per ogni singola parola. Intuiva quello che ciascun interprete stava per dire e riusciva a capire un testo prima che fosse portato in scena. Era molto esigente, chiedendo molto spesso l’impossibile perché riteneva che sul palcoscenico tutto potesse accadere. Oggi ci sarebbe bisogno di una tempesta, e non di una guerra, che con la sua acqua purificasse tutto il male che c’è in questo mondo».

Ha lavorato con tantissimi registi tra cui Franco Zeffirelli in “Fratello sole, sorella luna”. Cosa vuol dire essere stato diretto da lui?

«Ha un rispetto enorme per tutti gli attori, mettendoli sempre a proprio agio. È dotato di un senso estetico notevole e di una capacità ottima di usare la macchina da presa».

Ha partecipato a molti sceneggiati nella sua lunga carriera. Oggi che rapporto ha con la televisione? Cosa pensa di quello che viene trasmesso?

«Sento la mancanza del teatro nel piccolo schermo, dei classici da far conoscere alle nuove generazioni per educarli al meglio».

Lei è anche un assai conosciuto doppiatore. Quale importanza ha la voce per lei?

«È fondamentale. Fortunatamente ho sempre avuto questo timbro vocale, anche se poi si è perfezionato con il mio lavoro. Grazie ai miei maestri, ho imparato a respirare».

Ha doppiato alcuni dei più grandi attori, da Laurence Olivier a Donald Sutherland a Gregory Peck. Come si prepara?

«Cerco da comprendere la storia al meglio e poi di imitare, dando però la mia impronta e verità».

Cosa si prova a doppiare un personaggio?

«Molto spesso accade di essere coinvolti nella storia e nell’emotività del personaggio che si va a doppiare. È un sentire dentro sé colui a cui si va a prestare la voce».

Da forlivese che vive a Roma, cosa rappresenta per lei la Romagna?

«Anche se da anni vivo a Roma, torno sempre a casa a Forlì dove c’è ancora mio fratello. La Romagna è dentro di me, nel mio carattere e nel mio sangue, sempre».

Quali sono i suoi prossimi progetti sulla scena?

«Porterò in scena i re di Shakespeare (Who is the king) con un debutto al teatro Franco Parenti di Milano».

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