«La lingua? È una questione di potere: quello che non si nomina non esiste»

Rimini

RIMINI. «Se si modifica ciò che ci sta intorno dobbiamo modificare anche i confini linguistici».

La lingua italiana – come tutte le altre – è in continua evoluzione, ma spesso non sta al passo con i cambiamenti sociali. Da quando le donne hanno cominciato a occupare ruoli di prestigio nel mondo del lavoro o nella politica, il dibattito pubblico si è concentrato sulla questione, solo apparentemente banale: sindaca sì o sindaca no?

Ma, nonostante le indicazioni dell’Accademia della Crusca e i consigli dei linguisti, la femminilizzazione della lingua stenta ad affermarsi. Anche se solo ad alti livelli, perché nessuno si sogna di opporsi a operaia o infermiera, mentre magistrata e ministra suscitano molte reazioni avverse.

Perché?

«È una questione di potere e di rappresentazione asimmetrica» risponde Stefania Cavagnoli che ne parlerà a Rimini domani.

Cavagnoli – che è professoressa associata di Glottodidattica e Linguistica applicata all’Università di Roma Tor Vergata – dirige il Centro Linguistico di Ateneo e, con Francesca Dragotto, gestisce il laboratorio www.grammaticaesessismo.com. A Rimini parlerà del tema La lingua di genere e la sua rappresentazione (17.30 Cineteca) ospite del ciclo “Parla con lei. Sapienza contro violenza”.

Cavagnoli, ma che cosa c’entra la lingua con la parità di genere?

«La lingua c’entra perché crea la realtà ed è lo strumento per esprimere noi stessi, rappresentare il mondo, metterci in comunicazione con gli altri e creare relazioni. Perciò la lingua di genere rappresenta una realtà adeguata alla nostra situazione. In molte professioni, come nell’avvocatura o nella scuola, le donne sono la maggioranza, eppure sono sottorappresentate dal punto di vista della lingua. Ma ricordiamoci che quello che non si nomina non esiste».

«La nostra – spiega la docente – è una lingua androcentrica, costruita attorno all’uomo. Ma l’italiano ha due generi, maschile e femminile. La cosa strana, però, è che se siamo nell’ambito professionale basso non c’è problema, vedi maestra, spazzina, cassiera..., se invece entriamo nell’ambito di potere o di professioni più prestigiose, allora l’uso del maschile prevale».

Ci sono delle motivazioni storiche a parziale giustificazione.

«Certamente; anche la società è androcentrica, e molte professioni erano negate alle donne. Se le prime giudici italiane sono del 1963, è chiaro che prima non esistesse la parola magistrata, quindi ci vuole un po’ di tempo perché le cose cambino».

Una delle obiezioni più ricorrenti che si fanno è che certe parole «suonano male».

«Stranamente però questo approccio non lo applichiamo ad altre parole che con la rappresentazione del femminile non hanno nulla a che fare, da googlare a linkare: sono forse termini belli o che suonano bene? Però quello che ci dà fastidio è ministra, che poi è come minestra. Ci arrocchiamo su posizioni anteguerra».

È un problema degli uomini?

«Purtroppo sono molto spesso le donne a dire di no, perché implicitamente tengono come punto di partenza il maschile. Non c’è consapevolezza. Ci sono direttrici che si fanno chiamare direttore perché lo ritengono più prestigioso. Ma dubito che si farebbero chiamare operaio invece di operaia. Altre invece, anche giovani, fanno resistenze dicendo che “i problemi sono altri”, le violenze, i femminicidi... Ed è vero, ma non dimentichiamo che la lingua cambia la realtà. E se fosse davvero un argomento poco rilevante, non smuoverebbe così le viscere di tutti».

È anche questione di chiarezza.

«È vero. Se io dico: “I giornalisti hanno incontrato il direttore” mi immagino si stia parlando di tre uomini. Se invece dico: “Il giornalista e la giornalista hanno incontrato la direttrice” rappresento la realtà effettiva. Non è una questione di poco conto, bisogna esserne consapevoli. Dobbiamo sapere che la nostra grammatica non solo ci dice che si può fare, ma se un bambino a scuola scrivesse: “La ministro è andata”, la maestra gli correggerebbe la concordanza. Lo scopo è essere chiari e non fraintendibili. Umberto Eco diceva: lector in fabula, è chi legge che attribuisce il senso al linguaggio».

Perché allora istituzioni come l’Accademia della Crusca non sono più rigide su questi temi?

«La Crusca dice: si usa il femminile. L’ex presidente Nicoletta Maraschio era più prescrittiva, l’attuale, Claudio Marazzini, ha una linea più morbida. Certo è che la lingua non è sanzionabile».

Servirebbe almeno uno stigma sociale, come quello che c’è per chi sbaglia un congiuntivo.

«Sì. E poi ci sono i manuali, come quelli che presenterò a Rimini, Tutt’altro genere di informazione (Consiglio Nazionale-Ordine dei Giornalisti, 2015) e Linguaggio giuridico e lingua di genere: una simbiosi possibile (Edizioni dell’Orso, 2013). O la guida dell’associazione di giornaliste Giulia, a cura di Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Gli strumenti ci sono, usiamoli».

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