«Chi si alza in piedi e denuncia molestie si ritrova a combattere in solitudine»

Rimini

RIMINI. Non solo riesce a catturare le sfumature dell’animo umano ma riesce anche a raccontare la verità, senza spiegarla, sbattendola in faccia allo spettatore, esattamente come la vita che entra senza bussare rendendo ognuno di noi protagonista della propria esistenza. Questo è Marco Tullio Giordana, regista e sceneggiatore che ha firmato film che fanno parte della storia del cinema italiano; lunedì 5 marzo sarà ospite al cinema Fulgor di Rimini, insieme alla sceneggiatrice Cristiana Mainardi e al produttore Lionello Cerri, per presentare in anteprima la sua ultima fatica, Nome di donna. Un dramma interpretato da Cristiana Capotondi che veste i panni di una giovane donna trasferitasi da Milano in un paese della Lombardia, la quale diventa testimone di molestie sul luogo di lavoro. Lei sarà l’unica persona coraggiosa, decisa a svelare gli orrori di cui molti conoscono l’esistenza. Quello di Giordana non è un film di denuncia, ma il racconto di ciò che accade dopo la denuncia di una donna che con coraggio sfida i suoi datori di lavoro e persino le sue colleghe. Ne abbiamo parlato con il regista.

Giordana, dall’8 marzo nelle sale uscirà “Nome di donna”, il suo ultimo film. Ci può spiegare il titolo?

«Nome di donna è il titolo dell’inchiesta giudiziaria che parte dalla denuncia di una giovane neo-assunta in una clinica di anziani facoltosi, che diventa oggetto di attenzioni improprie. Si scoprirà che non è la sola; il dirigente ha infatti la brutta abitudine di fare avance fuori luogo alle sue dipendenti. Nina è l’unica a smascherare la difficile situazione, a differenza delle sue colleghe che invece acconsentono e tacciono per paura di perdere il posto di lavoro. Quando Nina denuncia, anziché ottenere solidarietà e appoggio dalle altre, ottiene vere e proprie ostilità. Il film indaga più che sul “fatto”, sul sasso lanciato nello stagno, sulle conseguenze che ne derivano, sui cerchi che si allargano fino a lambire sponde anche molto lontane. Una di queste è l’ostilità che immediatamente avvolge la vittima, l’insinuazione che “se la sia cercata”, la solitudine in cui si trova chi non intende sottostare. Questo problema è affrontato dal punto di vista di una cultura che non è solo maschile, ma che è un po’ di tutti quanti».

Quella che ci racconta è una storia di ribellione ma anche di coraggio. È d’accordo?

«Assolutamente sì. La ribellione è obbedire a quel senso di giustizia che è istintivo in tutti e che ci fa comprendere che è vietato sopportare i soprusi. Il coraggio è una sorta di conseguenza delle ribellioni in casi proprio come quello di Nina, nei quali ci si ritrova soli, deboli e senza alcuna protezione. Come insegnano gli avvenimenti recenti, chi si alza in piedi e accusa molto spesso si ritrova a combattere una battaglia in solitudine e questo non dovrebbe e non deve mai accadere».

Protagonista indiscussa è Nina, una donna incredibilmente forte. Per quali motivi? Ci accenna la sua storia?

«Nina è una ragazza umile, orfana e con una figlia da crescere da sola perché il padre della bambina se ne è andato. Il mestiere che voleva esercitare era quello della restauratrice ma i tempi purtroppo sono troppo magri per riuscire a farlo. Accetta così di fare l’inserviente, cioè la donna delle pulizie in una struttura che apparentemente è perfetta, impeccabile, con un personale molto gentile e qualificato, ma che invece nasconde del torbido».

Nel ruolo della protagonista troviamo Cristiana Capotondi. Perché ha scelto proprio lei?

«È una bravissima attrice e lavorare con bravi attori per un regista è un enorme vantaggio. Trovo che Cristiana nel suo modo di muoversi e di sorridere abbia qualcosa di molto fragile e contemporaneamente qualcosa di forte. Fa parte di quella categoria di persone che sembrano indifese non appena si conoscono, ma poi rivelano una forza d’animo incredibile. Mi sembrava che incarnasse perfettamente le caratteristiche di Nina».

Ci narra un mondo fatto di omertà, compiacenza e una sorta di precarietà emotiva. Che cos’è la molestia per lei?

«Nel corteggiamento è inevitabile che uno dei due faccia una prima mossa ed è sempre un azzardo. Se a questa mossa si risponde affermativamente, passo dopo passo nasce una relazione più o meno duratura tra due persone consenzienti. Se invece la reazione è di profondo fastidio e di panico, ecco che lì si deve stare in allarme. La molestia è un gesto di prepotenza; non riguarda più di tanto una battaglia tra i sessi ma piuttosto una lotta di classe nella quale c’è qualcuno di più forte e qualcuno di più debole. Trent’anni fa queste situazioni erano superate, ma oggi la totale mancanza di tutele e la precarietà del lavoro mettono le persone in uno stato di soggezione perenne. Chi è al vertice della piramide lavorativa abusa del potere che ha in mano. Questo non è un problema di morale ma di dignità della persona che viene violata».

Chi è Marco Tullio Giordana oggi?

«È un uomo che ha avuto un’educazione molto severa ed è grato di questo a sua madre, ai suoi terribili insegnanti che però gli hanno fatto amare la letteratura, la poesia, la musica e il cinema».

Un film delicato ma forte è stato “I cento passi” in cui racconta la vita di Peppino Impastato e quel coraggio di dire “no” alla mafia. A cosa e a chi oggi i giovani dovrebbero dire no?

«Alla criminalità organizzata, al potere declinato come un’oppressione e all’incultura della classe dirigente che non è più in grado di portare questo nome. I giovani devono dire a gran voce, denunciare e pretendere giustizia. Abbiamo leggi ben precise che devo essere rispettate e dove non ci sono deve prevalere la vergogna».

È il regista de “La meglio gioventù”, in cui racconta trentasette anni di storia, dal ‘66 al 2003, attraverso le vicende di una famiglia romana. Secondo lei chi è “la meglio gioventù” oggi?

«In tutte le famiglie esiste il bene e il male; c’è chi rivela qualità e chi rivela fragilità. Della “meglio gioventù” fanno parte tutti coloro che non acquisiscono la verità, la subiscono, si adattano; sono quei giovani in attrito con il loro tempo. La “meglio gioventù” è una minoranza, ieri come oggi. I ragazzi di questi decenni non hanno alcun modello davanti a sé, nessuna certezza e voce autorevole da cui ispirarsi».

Un altro suo capolavoro è “Quando sei nato non puoi più nasconderti” in cui ci si concentra sul fatto che la stessa nascita segna il passaggio a una vita difficile che si deve affrontare con le proprie forze e a cui non si può sfuggire. Cosa vuol dire per lei essere un migrante?

«Racconta di una realtà di oltre 10 anni fa che di fatto non è cambiata, anzi è peggiorata ulteriormente. La pellicola non ha avuto molto successo perché purtroppo agli italiani le cose scomode non piacciono molto. Essere un migrante vuol dire aver perduto la propria patria, gli affetti, le abitudini e anche una propria identità, e non c’è cosa peggiore che non riconoscersi in sé stessi».

Un film molto forte è stato anche “Romanzo di una strage”, sull’attentato di piazza Fontana a MIlano nel 1969 . Riusciremo mai a estirpare il terrorismo?

«Sì, se avremo messo in atto una giustizia sociale, senza quella ritengo sia impossibile. Un giorno probabilmente ne verremo a capo, ma solo quando il mondo sarà ben governato da persone che hanno la consapevolezza che hanno in mano un compito importantissimo, che non è quello di arricchirsi enormemente».

Che cos’è per lei il cinema?

«È incantesimo, la lingua universale del nostro secolo, è magia e un qualcosa che ci permette di vivere un’esistenza diversa dalla nostra, quella dei personaggi che vediamo sullo schermo; li comprendiamo, facciamo nostre le loro emozioni, anche in un’altra lingua perché sono gli occhi a parlare e a raccontare il tanto di quelle vite».

Alle 20.30 aperitivo, alle 21 presentazione. A seguire, film e dibattito

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