«Queste storie sepolte negli archivi imploravano di essere raccontate»

Rimini

«Non ha nemmeno il tempo per urlare. […] L’ultima cosa che Roberto vede è la canna nera di quella Smith&Wesson […]poi più nulla».

Terminano così le prime pagine de Il filo dei giorni (Imprimatur, Reggio Emilia). Fatti, quelli narrati, apparentemente inverosimili nella loro lucida crudezza, ma che in realtà sono parte di una misteriosa pagina italiana – quella delle stragi del 1992-93 – che nulla ha a che fare con la fantasia del giallista, appartenendo invece alla tragedia della storia.

L’autore è il bolognese Maurizio Torrealta, classe 1950, giornalista che da anni – prima come corrispondente dagli Usa, poi direttamente sul nostro territorio – riflette e indaga sui tanti misteri che hanno legato (e probabilmente legano tuttora) una certa parte dello Stato alla criminalità organizzata, cercando di indagare le modalità attraverso cui quel fil rouge è diventato sempre più resistente e ramificato all’interno della vita sociale, economica e politica del Paese.

Torrealta, lei insegna da anni giornalismo, suo padre e suo fratello erano entrambi giornalisti. Quale l’origine del suo amore per questo mestiere?

«Il giornalismo è una professione sottoposta a tante pressioni mai esplicitate, ma intuibili per chi frequenta la redazione: tra i giornalisti, quelli che fanno carriera sono i più veloci ad allinearsi all'ultimo direttore. È un mondo competitivo in continua trasformazione. Sia a me che a mio fratello interessava fare questa professione ma con interlocutori diversi: come molti giovani giornalisti di oggi, sognavamo di svolgere un lavoro più approfondito».

Ha lavorato come inviato del Tg3 in Sicilia, iniziando l’attività investigativa sulle stragi di mafia. Quando e perché nasce in lei il bisogno di occuparsi di questo tema?

«L'attività più importante di un giornalista è porsi delle domande, fare delle congetture, non solo fermarsi al già detto. Soprattutto quando nascono i misteri su un caso di cui ci si è occupati, si è obbligati a continuare a seguirlo. È un arruolamento automatico nella ristretta cerchia di giornalisti “pistaroli” che non si fanno depistare e che intendono aggiornare il racconto alle scoperte avvenute. La storia della prima Repubblica ha fatto nascere una folta schiera di giornalisti, storici, avvocati e magistrati che non smettono di cercare la verità sulla base del metodo induttivo, che sa partire da labili indizi per giungere alla scoperta».

Il suo libro appartiene a un genere letterario ibrido che interseca diversi piani narrativi e realistici, cronaca e immaginazione romanzesca. Quale può essere il valore di una siffatta “letteratura” in grado di illuminare la storia e nello stesso tempo avere la forza di un romanzo?

«Credo di essere stato il primo giornalista a visionare i faldoni dell’inchiesta sulla Falange Armata, iniziata nel 1994 e rimasta inaccessibile per undici anni, per essere sepolta fino al 2015, quando ottenni il permesso di esaminare il materiale. Trovai storie che imploravano di essere raccontate ma non era stata rinvenuta nessuna ipotesi di reato e quindi, se avessi sfiorato determinate questioni, avrei potuto espormi a querele: la scelta di ricorrere alla forma romanzata è stata determinata soprattutto da questi motivi. Poi l'efficacia del racconto mi ha convinto che il libro avrebbe offerto una conoscenza estremamente più ricca di quanto un saggio giornalistico avrebbe permesso: non ho dovuto far nessuno sforzo per trasformare quelle storie in un romanzo, erano pronte a essere raccontate».

Si assiste al fenomeno del “cospirazionismo” online, fatto di ipotesi non suffragate e sensazionalismo spicciolo. Come si pone, rispetto a tutto questo?

«Quando ci si collega a Google non si ha una finestra trasparente sul mondo ma solo una visione confezionata ad hoc sulla base delle informazioni che il singolo utente fornisce indirettamente. Ciò da un lato offre l'impressione di essere confermati nelle proprie ipotesi, dall'altro non rende la complessità del caso in esame. Non uso Internet come strumento di conferma delle mie ricerche, che invece si basano sulle sentenze prodotte, sulle inchieste archiviate e sulle informazioni raccolte a voce».

È stato collega di Ilaria Alpi, che ha pagato con la vita l’amore per la verità, e che purtroppo non ha ancora avuto giustizia. Si giungerà mai a responsabilità e mandanti?

«Finché si continua a pensare che alcuni partiti di sinistra siano estranei a quei traffici di armi e rifiuti tossici, non si giungerà mai alla verità e si dovrà accettare che un ambasciatore italiano inviato dal vicepresidente del Consiglio abbia portato a testimoniare un soggetto che ha raccontato di essere stato pagato per indicare un falso colpevole che permettesse di far chiudere il caso».

La nascita della seconda Repubblica, l’impunità nei confronti dei servizi segreti e l’oblio sulle vicende, ricordano da vicino quanto enunciato nel suo libro come progetto di una parte deviata dello Stato. È così?

«Il tempo è una variabile che riserva grandi sorprese. I combattenti di quella guerra segreta sono in parte deceduti e in parte non godono più di copertura. Gli equilibri nel mondo si modificano e le priorità di quelle strutture che hanno operato clandestinamente in Italia ora vertono altrove. Non si è arrestato però il desiderio di verità: le forze democratiche hanno coinvolto nuove generazioni, è avvenuto un passaggio di testimone. Non penso che la battaglia sia persa, ma temo che la verità non avrà conseguenze giudiziarie gravi quanto il reato di strage merita».

Considerati i recenti sviluppi delle indagini sulla trattativa tra Stato e mafia, pensa che si riuscirà mai ad avere un quadro completo di quel lungo filo rosso che li ha uniti?

«Un’organizzazione clandestina è difficile che venga sciolta immediatamente ma verrà destinata a nuove funzioni: nell'ultima pagina ho lanciato un allarme nei confronti di una nuova struttura, la Gendarmeria europea, nata da un accordo dei governi di alcuni Paesi europei, che pretenderebbe di sottrarsi al controllo della magistratura, un mostro giuridico che assomiglia alle compagini clandestine del passato che ora vorrebbero operare a livello europeo».

A che cosa sta lavorando adesso?

«C'è ancora un’enormità di fatti e racconti sulle responsabilità delle stragi che reclamano di essere raccontate: si possono eliminare i nomi e i riferimenti a persone reali ma il racconto non può essere cancellato».

Già, perché come sottolinea Torrealta nel suo libro, «la democrazia è anche saper vedere in faccia la tragedia».

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