«Ho imparato la lezione da Franco Parenti: il malato non è affatto immaginario»

FORLI. l teatro Diego Fabbri di Forlì inaugura la stagione di prosa con Gioele Dix protagonista de “Il malato immaginario” di Molière per la regia di Andrée Ruth Shammah, in scena da oggi a sabato (ore 21) e domenica (ore 16). Anche quest'anno sarà possibile incontrare la compagnia nel foyer del teatro sabato 11 novembre alle 18.

Andrée Ruth Shammah aveva già firmato la pièce nel 1980. Allora Argante era Franco Parenti e Tonina una grande Lucilla Morlacchi: ora a interpretare la serva affezionata e astuta c'è Anna Della Rosa, mentre l'ipocondriaco protagonista è incarnato da Gioele Dix, che in quel primo allestimento c'era già, ma vestiva i panni di Cleante, lo spasimante di Angelica, figlia del “malato”.

«E fu un'esperienza bella ma che vissi anche con un po' di ansia – racconta David Ottolenghi (questo il vero nome di Dix –. Franco fu un maestro per me, perché era estremamente generoso verso chi stimava: io, giovane attore, ero sotto la sua ala. E per questo continuamente sotto esame. È un ricordo molto grato e anche tenero, quindi, quello che ho di lui, e di quella rappresentazione, ma non nascondo che la vissi anche con un po' di fatica».

Quanto di quell'Argante ammicca nella sua interpretazione di oggi?

«Devo tanto a quel “malato”: quando Parenti era in scena infatti io stavo in quinta, a studiarlo, a guardare come respirava, come si muoveva, dicendomi “quanto sarebbe bello un giorno fare quella roba là”. E ci siamo riusciti: Andrée Shammah ha riprodotto lo stesso allestimento, con la stessa traduzione di Garboli, con un lettura scenica molto aderente all'originale che mette in rilievo il comico, il senso della farsa di questo testo, ma anche l'eco drammatica della “vera” malattia di cui soffre il protagonista».

Quindi il “malato” non è tale soltanto nella sua immaginazione.

«Anzi, la sua è una malattia molto contemporanea per noi, e molto “avanti” per i tempi in cui il dramma fu scritto, a metà del XVII secolo: Argante è depresso, è bipolare, si difende dagli affetti, dalla fatica della vita, attraverso la malattia. Non è affatto un debole, e noi infatti, specialmente nei momenti in cui si infuria, lo proponiamo molto energetico. Lui sfrutta il proprio potere nei confronti della serva, della famiglia, di tutti quelli che lo circondano, come un bambino viziato e tiranno, ma di fatto, come noi, è un uomo che ha paura: paura di vivere, di affrontare responsabilità e imprevisti. Infatti poi mostra tutti suoi timori, che sono poi quello che dà adito al suo comportamento, anzi al suo modo di essere… E finisce per essere inevitabile affezionarsi a lui».

Anche in questa interpretazione del personaggio lei sente di riprendere la lezione di Parenti?

«Certo: Franco era un attore colto, aveva un approccio intellettuale al nostro mestiere. Allo stesso tempo aveva fatto la rivista, e portava una profonda sensibilità nei confronti della reazione del pubblico: in questo era veramente un attore e un comico di razza, pronto addirittura a fare cose “forti” per far ridere. Rielaborandola secondo il mio gusto ho fatto mia quella lezione, ma un paio di battute le rifaccio proprio come le diceva lui, con la sua intonazione, che fa ridere anche se stai pronunciando una parola semplicissima e quotidiana».

Un esempio?

«Beh, quando Argante fa al presunto luminare straniero la lista dei cibi compresi nella sua dieta e arriva a citare il “brodo”, lo dice in un modo che scatena sempre l'ilarità del pubblico! Ma questa è la capacità di impreziosire anche la singola parola, un altro insegnamento vitale che Parenti dava a noi giovani attori, sempre ansiosi di calcare il palco e allo stesso tempo terrorizzati! “Non si deve avere fretta, e non si deve buttare via neppure una parola”, ci diceva: e anche di questo insegnamento ho fatto tesoro».

Lei ha ormai infatti alle spalle una lunga carriera, fatta anche di esperienze molto diverse tra loro: quali porta con lei, sulla poltrona di Argante?

«Porto con me la consapevolezza che il teatro è una specie di patto tacito con il pubblico, qualcosa di simile a quello che facciamo da bambini con il gioco del “facciamo che io ero…”. A questo gioco però dobbiamo credere tutti: noi sul palco, e il pubblico di fronte a noi. Dato allora che “Il malato immaginario” è un'opera scritta 400 anni fa, il patto in questo caso è tenere fede a questo “gioco”, con quella dedizione particolare che si deve a spettacoli narrativi in cui deve essere sempre tenuto teso il filo del racconto».

Biglietti: € 25-14. Info: 0543 712170

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui