Partigiano per sempre, la Resistenza di Giorgio Bocca

Rimini

In montagna era salito per scappare dai tedeschi che stavano occupando il Paese. Lassù in alta quota però, per il cuneese Giorgio Bocca, giornalista e partigiano, c’era qualcosa di più importante da fare: liberare l’Italia dai tedeschi e dal fascismo. A costo di rischiare la vita. Aveva solo 23 anni, allora, e un grande obbiettivo: agire e condividere il “progetto” di antifascisti come Livio Bianco, Giorgio Agosti, Duccio Galimberti. Nacque in quegli anni di guerra Banda Italia Libera, la prima formazione partigiana italiana inquadrata nelle file di “Giustizia e Libertà” a cui Bocca aderì per venti mesi. Della guerra partigiana e dei rapporti interni ai gruppi che avevano dato vita alla Resistenza, il giornalista scomparso il giorno di Natale del 2011 ha parlato in due interviste con il riminese Teo De Luigi. Il regista e autore residente ora a Calice Ligure le ha riunite in un libro da poco sugli scaffali: si intitola Un’esperienza formidabile. La Resistenza di Giorgio Bocca: un’intervista e l’ha pubblicato con Araba Fenice. Ne parliamo con l’autore.

De Luigi, come nasce l’esigenza di pubblicare il libro su Bocca?

«Spontaneamente, perché il rapporto con lui era intenso e ripetuto nel tempo. Quando poi questa estate, facendo una indagine, ho capito che nessun giornale, neppure il suo, ci teneva a ricordare che era scomparso da cinque anni, a quel punto ho detto, no: io queste due interviste del 2006 e del 2009 le stampo; vediamo se qualche casa editrice è interessata. Ed è arrivata Araba Fenice».

Come sono nate?

«Per la prima avevo in testa di fare un documentario su Duccio Garimberti, avvocato, antifascista e partigiano di Cuneo, che ebbe la prima Medaglia d’oro al valore militare data a un civile, nel febbraio del 1945. Conoscevo già Bocca e lo contattai. Mi disse: “Per Garimberti venga quando vuole”. La seconda intervista, nel 2009, la pensai per l’impresa che Marco Revelli intraprese in memoria del padre Nuto: voleva ricostruire il villaggio di Paraloup, quello dove si insediò nel 1943 la prima banda partigiana di GL».

Possiamo definire quello tra lei e Bocca un rapporto di amicizia?

«Dire amicizia è esagerato, specie oggi il cui largo uso del termine sui social network lo priva del suo valore. Però c’era un rapporto di grande rispetto e per me è stato un grande incontro».

Bocca non rinnegò mai le azioni dei partigiani. Sui loro eventuali errori rispondeva: «Per come l’ho vissuta, è stata un’esperienza fantastica e formidabile».

«La franchezza e schiettezza sono sempre stati i punti di forza di Bocca».

Perché molti italiani hanno dimenticato in fretta chi pagò con il sangue per la nostra libertà ? Bocca ne era rammaricato?

«Ci furono trentamila morti, non pochi. Ma questa non era l’unica cosa di cui si dispiaceva. Nel 2006 decise di ripubblicare Partigiani della montagna, il suo primo libro scritto nel ’45. Perché l’ha fatto è stata la prima domanda del nostro incontro. Mi disse: “Perché vedo e sento avanzare nuove tesi sulla Resistenza da fascisti e negazionisti, e tutta questa gente pensa alla Resistenza come a un gruppo di banditi che si divertiva ad ammazzare”. Era questo il suo grande dolore. Diceva: “Tutto ciò mistifica la memoria: lo ripubblico per ristabilire come sono andate le cose. La verità non può essere inquinata da neofascisti che spacciano la Resistenza per un’operazione falsa”».

Cosa ha fatto di Giorgio Bocca un grande giornalista?

«Non si fermava a quello che vedeva. Si metteva in gioco e sapeva ascoltare».

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