L’ultimo dei naïf «Io dipingo in dialetto»

Rimini

SANTARCANGELO. Giuseppe Boschetti è in casa sua davanti ai suoi quadri e si racconta con discrezione, lui che è un gran narratore quando non parla di sé. Sabato 17 dicembre alle 11 il Comune di Santarcangelo gli conferirà l’Arcangelo d’oro, massima onorificenza cittadina, «per un’attività artistica di valore assoluto, per il legame indissolubile con Santarcangelo e le sue piazze, trasformate in un luoghi iconici e senza tempo attraverso quadri capaci di esprimere l’essenza più autentica della città e dei suoi abitanti; e per il contributo alla notorietà del Festival internazionale del teatro in piazza, entrato a far parte dell’immaginario collettivo anche grazie ai manifesti realizzati nei suoi primi anni di vita».
Qual è il suo stato d’animo dopo aver saputo dell’importante riconoscimento?
«Non so se me lo merito! La cosa mi ha commosso, sono molto grato e orgoglioso perché il premio viene dalla mia città dove ho vissuto e lavorato e dove mi conoscono tutti. Io, quando mi invitano fuori per fare mostre, mi chiedo cosa vado a fare dove non conosco nessuno, e così non ci vado».
Che cosa rappresenta per lei la sua città?
«È la cosa che amo. Devo tutto a lei: i miei quadri sono improntati alle conoscenze che ho di lei. La mia fantasia è nata qui e fin da piccolo si è nutrita dell’aria di Santarcangelo».
Non l’ha mai lasciata?
«No, mi sento bene qui come a casa mia».
Ha sempre disegnato, fin da piccolissimo ma quando ha iniziato a farlo con metodo?
«All’asilo erano le maestre a chiedermelo, peccato che non li ho più ricevuti indentro quei disegni. Inizialmente, prima di prendere questa strada, che sto ancora percorrendo, facevo quello che fanno tutti: nature morte, ritratti, paesaggi, ma questi non mettevano in moto la mia immaginazione, la mia fantasia e i colori che ho dentro non emergevano da quel tipo di pittura. Così ho intrapreso il mio percorso e mi diverto nell’andare a concretizzare prima una ambientazione poi determinate figure su cui faccio tutti i ragionamenti necessari per costruire dei volti psicologicamente coerenti con il tipo che rappresentano».
Lei è molto esigente e la sua ricerca è continua, è uno stimolo o un limite?
«Non conta il tempo che ci metto, devo fare ciò che mi sento. Quando disegno mi diverto, per me è l’espressione massima della creatività, dopo viene il lavoro descrittivo perché ogni quadro è una composizione che va costruita perfettamente».
Come comporre un libro?
«Sì, prima creo tanti bozzetti poi disegno la tela, quando vado a dipingere devo già essere sicuro di come deve venire fuori il quadro, non devo più pensare al disegno, resta la concentrazione sulla scelta dei colori e sull’armonia degli stessi rispetto all’intera opera».
Ma è un lavoro immane, forse persino superfluo...
«Sono fatto così. Devo essere soddisfatto io del mio lavoro. E fino a quando non ho risolto anche un piccolo intoppo o rimediato a uno sbaglio anche invisibile, non procedo, tanto io non ho scadenze perché non ho commesse, dipingo per me».
È proprio un artista anomalo; ma questa anomalia è caratteriale?
«Io sono geloso dei miei lavori e ancor più delle cose che sto facendo in questo ultimo periodo. Devo tenermeli accanto».
Come ha fatto a resistere al canto delle sirene dei galleristi?
«Ho sempre detto di no, e non solo alle richieste di acquisto ma anche alle richieste di esporre, lo stesso è accaduto recentemente con una mostra a New York. Mi dispiace di non essere come tanti, chissà, se avessi una maggiore produzione forse mi dispiacerebbe un po’ meno…».
Il fatto che sorrida fa supporre che questa sia una scusa, vero?
«Può darsi!».
Può dare una definizione della sua pittura?
«Io dipingo in dialetto, lo dico perché calco molto la mano sia nella caratterizzazione che nel colore. L’italiano è più lezioso, dovrei fare un altro tipo di pittura».
Lei invece come si audefinirebbe?
«Pittore, artista no, è una cosa grossa e poi dovrebbero dirlo gli altri».
Perché non scelse una scuola d’arte date le doti innate?
«Mio padre me lo propose ma si doveva soggiornare a Urbino o a Ravenna e io non me la sono sentita di prendermi una responsabilità così grande».
Per modestia?
«No, per insicurezza che ho ancora adesso».
Come? Non è possibile!
«Dico una cosa che non ho mai rivelato: quando mi accingo a fare un quadro è come se fosse la prima volta, sempre».
Questo è magnifico!
«Sì, ma è anche una cosa negativa… Per me ogni quadro potrebbe essere il primo e l’ultimo e in ogni quadro ci metto tutto me stesso, l’anima il cuore. Non faccio mai un lavoro così per fare, mai!».
Però c’è una contraddizione. Sceglie spesso tele grandissime. È una sfida?
«È la possibilità di raccontare il più possibile. Perché io sono un raccontatore, mi piace spaziare con la fantasia che è quella di un bambino così come l’entusiasmo che è lo stesso che avevo da bambino».
Guardando i suoi personaggi si rintracciano quelli di Baldini: lui li raccontava con le parole, lei con le immagini, e c’è una similitudine anche legata al gusto per i dettagli.
«È vero, mi identifico con i suoi personaggi, sono certo che le poesie aiutano a cogliere quello che c’è oltre e io amo tutti i nostri maestri che ringrazio per il dono della loro poesia».
L’Arcangelo d’oro sarà conferito anche a Eron, cosa ne pensa?
«L’ho conosciuto e ho visto le sue opere che sono bellissime, mi piacciono molto. Sono contento e mi fa molto piacere».

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