Riccardo Muti: «Avanti fino a quando avrò la forza di farlo»

Rimini

RAVENNA. La seconda edizione dell’Italian Opera Academy sta per concludersi: mercoledì scorso Riccardo Muti ha diretto, in forma di concerto, una “Traviata” (quasi integrale, priva solo della parte centrale del primo atto) da ricordare, per la cura degli infiniti dettagli espressivi, del suono, della tornitura delle singole frasi, ma soprattutto per una sorta di “tensione serena” che univa in un solo corpo tutti gli interpreti, dalle voci dei protagonisti all’ultimo dei coristi, ai giovani professori d’orchestra, tutti pervasi di quella sottile gioia, quella soddisfazione appena tinta di orgoglio che sempre accompagna il lavoro ben fatto.

Manca solo l’ultimo atto, il “gala” riservato ai giovani direttori che il Maestro presenterà al pubblico questa sera, prima di volare a Salisburgo per i tradizionali concerti di ferragosto, che lo vedranno sul podio dei Wiener Philharmoniker dirigere la Seconda di Bruckner e la suite “Il borghese gentiluomo” di Strauss. È a queste partiture che sta lavorando quando con generosità ci riceve per raccontare dell’Accademia che si sta concludendo, un’esperienza in cui crede fermamente.

«Negli ultimi anni – spiega il Maestro – difendere l’opera italiana, e in particolare Verdi, dai soprusi, dai tagli e da quell’enfasi superficiale che si è cristallizzata nel canto e che ne tradisce la severità e la purezza, è diventato per me un “chiodo fisso”. Non perché io possegga la verità verdiana, ma semplicemente perché cerco di interpretare le sue partiture per quello che c’è scritto e sempre tenendo conto di ciò che i cantanti sono chiamati a cantare».

Dopo il “Falstaff” approfondito lo scorso anno, cosa ha determinato la scelta di “Traviata”?

«Dopo la parola “parlata” e l’assenza di grandi arie nell’opera più complessa e moderna di Verdi, si è scelto per contrasto un titolo popolarissimo, appunto della trilogia popolare, in cui nella bellezza delle arie ancora risuona il ricordo del belcanto, a cui però l’autore accosta dei recitativi in cui richiede il “parlato nel canto”, una delle cose più misteriose e difficili da ottenere per il cantante. Un’opera insomma che sta a metà strada tra belcanto e recitazione, e che è tra le più bistrattate dalla cosiddetta e malintesa “tradizione interpretativa”. Eppoi un’opera che rimane un unicum nel catalogo verdiano perché apre una prospettiva rivoluzionaria nel tema e nell’ambientazione realisti: non più miti e leggende, eroi immaginari e buffoni, ma un preciso gesto di protesta verso quella società borghese più retriva e arrogante che disapprovava la sua libera convivenza con Giuseppina Strepponi».

I ragazzi selezionati per l’Accademia provengono dai paesi più diversi. Qual è la formazione che li caratterizza e come chi non è italiano (uno solo di loro lo è) può affrontare Verdi?

«Io mi rivolgo a giovani musicisti di tutto il mondo perché vorrei che questo messaggio arrivasse ovunque, perché Verdi colpisce il cuore di tutti ed è importante che ovunque il pubblico possa cogliere la sua profondità. Questi giovani hanno studiato a Berlino, Lipsia, Tokyo, Pechino, ma qui sembrano scoprire un mondo nuovo. Certo gli italiani sono in vantaggio, sono cresciuti in questa cultura e capiscono fino in fondo ciò che i cantanti debbono esprimere – le parole devono sempre essere comprensibili, le interpretazioni di Renata Scotto, che mi ha affiancato in questa esperienza, sono un esempio di come Verdi andrebbe intonato. I non italiani comprendono invece che imparare la nostra lingua è fondamentale: perché in Verdi tutto sta nel rapporto strettissimo tra musica e parola. Anche in Wagner ovviamente la parola è importante, ma – e non voglio essere frainteso – il suo canto naviga su un tessuto sinfonico enorme, oceanico… in Verdi non è così, la parola è appena sostenuta da un pizzicato o poco più, per cui il suono deve avere il peso, il colore e il significato della parola stessa, e viceversa. Così gli allievi capiscono che Verdi non è lo “zumpapà” che si crede e che talvolta si pratica, e che la sua scrittura merita di essere eseguita alla stessa maniera nobile che si riserva a Schubert, Mozart o Haydn».

A proposito di Mozart, di cui lei è tra i massimi interpreti: con Verdi siamo di fronte ai più grandi drammaturghi musicali di ogni tempo. Che cosa li accomuna?

«Il recitativo: in Verdi la parola parlata improvvisamente si innalza a parola cantata, esattamente come nel recitativo di Mozart, di cui certo Verdi ha assorbito la lezione, del resto Mozart parlava perfettamente l’italiano e al suo fianco aveva Da Ponte… Ma tornando a Verdi, anche nei recitativi delle primissime opere mostra un tratto michelangiolesco, scolpisce la parola in maniera molto decisa. Ed è su questo che insisto con i giovani interpreti, sulla cura del recitativo che, a parte qualche eccezione, in Verdi, contrariamente a ciò che si fa con Mozart, è colpevolmente trascurata».

Lei ha diretto le più prestigiose orchestre del mondo, dai Wiener ai Berliner, dalla Scala alla Chicago, quale è quella a cui Verdi è più congeniale?

«Certo gli italiani hanno una predisposizione naturale per l’autore che incarna il nostro carattere e la nostra cultura, ma le orchestre che credo riescano a servirlo meglio sono quelle “vergini”, più disposte ad apprendere e a scoprire Verdi. Per esempio la Chicago Symphony Orchestra, che non è un’orchestra “d’opera” ma esegue il repertorio italiano con grande rispetto e felicità. Poi i giovani della Cherubini: pochi suonano Verdi con lo stesso nitore, dedizione e aderenza alla partitura che loro sanno esprimere».

Questa è la seconda edizione, ma la scorsa primavera l’Italian Opera Academy è approdata anche in Corea del Sud. Cosa si profila per il futuro?

«Siamo appena all’inizio, non riceviamo e non abbiamo chiesto finanziamenti pubblici mentre accogliamo il sostegno di sponsor privati, e le centinaia di domande che arrivano da tutto il mondo ci spingono ad andare avanti. Anche l’esperienza in Corea è stata importante: lì come in tutto l’Oriente c’è molta attenzione alla nostra cultura musicale. In particolare per l’Accademia c’è grande interesse in Cina, che è il paese in cui più che altrove sale da concerto, orchestre e teatri stanno aumentando in progressione geometrica. In ogni caso, non rinunceremo alla sessione italiana, che anche nel 2017 si terrà qui a Ravenna, ancora non posso dire su quale opera, ma certamente sarà di nuovo Verdi. E l’esperienza andrà avanti fino a quando avrò la forza di farlo: perché lavorare con i giovani mi piace moltissimo e perché la Cherubini è straordinaria, e vorrei che tutti loro approdassero nel modo migliore alla professione… purtroppo in Italia mancano le opportunità, intere regioni sono prive di teatri, di orchestre, ed è molto grave, l’ho detto di fronte a senatori e deputati, l’ho detto a presidenti della Repubblica… e non mi stanco di ripeterlo».

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