«Si sta strumentalizzando un fatto per attaccare un festival e le amministrazioni pubbliche che quel festival sostengono»

Rimini

Pubblichiamo per intero la lettera che Silvia Bottiroli ha inviato ai giornali dopo le molte polemiche e i fraintendimenti dei giorni scorsi

SANTARCANGELO DI ROMAGNA. La rappresentazione di (untitled) (2000) di Tino Sehgal nello spazio retrostante il Lavatoio durante Santarcangelo festival internazionale del teatro in piazza ha scatenato un “caso”, e una serie di commenti e proteste, che non avevamo immaginato, e ha portato il fatto sul piano nazionale, irrompendo anche nell’ambito politico in senso stretto con interrogazioni al Consiglio comunale, alla Giunta regionale e al Parlamento. Intervengo oggi, alla luce degli sviluppi di quello che non si può neanche dire un “dibattito”, per riaprire il discorso e mettere l’accento sulla questione artistica e cioè, sostanzialmente, per ricordarci di che cosa stiamo parlando.

L’OPERA, O CHE COSA ABBIAMO VISTO

Si è scritto che «un uomo si piscia in bocca in piazza», e questa frase è rimbalzata in molti discorsi e in troppe pagine dei social, sino ad arrivare addirittura ai media, là dove alcuni giornalisti non si sono preoccupati di verificare la verità di una “notizia”. Sarebbe bene, in particolare quando si tratta di arte, che si fosse visto ciò di cui si parla, e che si parli alla luce di un’esperienza, una testimonianza, non di un sentito dire o di una fotografia che può, come sappiamo, essere ingannevole.

Questa scena semplicemente non esiste nel lavoro di Tino Sehgal, e nella performance di Frank Willens oggetto delle polemiche. Esiste un assolo di un danzatore che danza, esegue una serie di coreografie peraltro molto “classiche”, in una performance di grande sapienza e armonia. È un nudo che non si impone, che semplicemente è, fuori da ogni narcisismo: puro corpo che si lascia attraversare dalla storia (della danza) del Novecento, e che nella performance all’aperto lo fa con una generosità, rispetto alle condizioni fisiche e all’incontro con gli spettatori, commovente. Un corpo nudo perché fuori dal tempo, spogliato di ogni riferimento iconografico a un’epoca, corpo disponibile quindi a un attraversamento storico che in poco meno di un’ora ci permette un viaggio vertiginoso lungo un intero secolo. L’ultima scena dello spettacolo – che è interamente composto da una serie di citazioni di linguaggi e scene della danza del XX secolo, da Vaslav Nijinsky a Xavier Le Roy, da Isadora Duncan a Pina Bausch, Yvonne Rainer, Trisha Brown e Merce Cunningham, per non fare che alcuni nomi – vede il danzatore portare le mani al sesso, quasi a nasconderlo pudicamente, lasciar uscire un getto di pipì e pronunciare la frase “Je suis Fontaine”. Si è scritto e detto che è un’arte «che non si capisce», e probabilmente è vero che per comprendere fino in fondo il senso di questa scena è utile avere qualche riferimento artistico: l’immagine è una citazione dello spettacolo Jerôme Bel del coreografo francese Jerôme Bel, di cui già la scelta del titolo fa intuire l’approccio disincantato e dissacrante alla tradizione “alta” della danza, e il rivolgersi a quella che giustamente è stata definita dagli anni Novanta (lo spettacolo in questione è del 1995), come una “non-danza”, basata soprattutto su gesti e movimenti ordinari e sostenuta da una solida impalcatura concettuale. A sua volta Bel – e con lui Sehgal – cita la celeberrima scultura Fountain di Marcel Duchamp, uno dei maestri dell’avanguardia artistica di inizio Novecento. C’è tra Duchamp e Bel/Sehgal la storia di un secolo appunto (come annunciato dal danzatore di (untitled) (2000) all’inizio della rappresentazione, quando dice che si tratta di «20 minuti per il XX secolo»), e insieme c’è il passaggio dall’arte visiva, che porta in scena perlopiù degli oggetti, e in questo caso un “readymade”, alla danza come arte del puro movimento senza oggetto. Un tema, questo, su cui Sehgal sta continuando a lavorare anche nei maggiori circuiti dell’arte contemporanea, e un tema che per la danza e il teatro non è affatto nuovo, al contrario.

Chi ha assistito alla performance sabato o domenica, nello spazio pubblico o al chiuso (è stato poco ricordato che la performance consisteva di due parti, identiche ma danzate da due interpreti diversi, la seconda delle quali affidata a Boris Charmatz all’interno del Lavatoio), ha anche visto come tutto lo spettacolo sia una partitura coreografica raffinatissima, eseguita da un danzatore di grande preparazione tecnica e capacità esecutiva, e come il suo corpo si porti nello spazio pubblico della scena con grazia, con sottile ironia, con pudore (non dimenticheremo il sorriso di Willens in alcuni momenti del pezzo, così come non dimenticheremo la sua schiena percorsa da un sudore nero d’asfalto).

Non regge, di fronte a questo spettacolo, l’argomento del «lo potevo fare anch’io», e domenica è stato evidente anche a chi ha voluto assistere alla performance solo per riconoscervi ciò che sapeva già di voler vedere: uno scandalo, un gesto di mancanza di rispetto, di “pornografia” o addirittura “pedopornografia”, come è stato scritto; il segno inequivocabile della “decadenza” dell’arte performativa contemporanea e del festival di Santarcangelo.

Stiamo discutendo di questioni serie, e occorre che facciamo attenzione alle parole, che sono importanti, e che ci confrontiamo con onestà. L’interpretazione soggettiva che possiamo dare a un’opera d’arte varia naturalmente per ognuno di noi, ed è innegabile il diritto di ciascuno a rivendicare il proprio punto di vista, ma le discussioni di questi giorni hanno volutamente falsato una realtà e si stanno appoggiando su una scena che non esiste (quella dell’«uomo che si piscia in bocca» appunto) e in generale su di un’attitudine, una presenza, un’intenzione, che non sono, inequivocabilmente non sono, quelle a cui abbiamo assistito.

Chi, infine, ha paragonato questo gesto a quello di un qualsiasi cittadino che decida di orinare in un luogo pubblico, ha evidentemente fatto finta di non vedere non solo il gesto del danzatore – che ha orinato sì, ma come ultimo gesto di una sequenza coreografica, in una citazione di un’altra, anzi di due altre opere, e nella posa infantile, pudica e gioiosa del bambino che gioca, appunto, a farsi fontana – ma anche la presenza, attorno a questa rappresentazione, di un festival.

IL CONTESTO

È stato scritto da alcuni che lo spettacolo sarebbe stato accettabile (e di fatto è stato accettato anche dai benpensanti che si sono resi protagonisti di questa polemica) se svolto all’interno di un luogo teatrale per un pubblico pagante, ma che il fatto di presentarlo all’aperto e nello spazio pubblico solleva altre questioni.

Questo argomento è innegabilmente vero. Sebbene la scena teatrale e lo spazio dell’arte in genere siano sempre spazi pubblici, e l’accesso sia permesso a chiunque, talvolta dietro il pagamento di un biglietto talvolta gratuitamente, presentare un lavoro all’aperto significa portarlo anche allo sguardo di cittadini e passanti casuali, significa permettere o cercare l’imbattersi fortuito dello sguardo sull’opera, sul gesto.

Presentare a Santarcangelo la doppia versione di (untitled) (2000), al chiuso e all’aperto, è stata una scelta precisa, che credo sia giusto rendere chiara a chi ha ancora voglia di comprendere, e non solo di urlare. Innanzitutto, il Festival internazionale del teatro in piazza utilizza da sempre, e ha utilizzato quest’anno, diverse piazze e diversi luoghi pubblici di Santarcangelo: talvolta presentandovi degli accadimenti a sorpresa, come nel caso di alcune delle azioni compiute dalle signore di Azdora o della sottile infiltrazione nel reale dei performer di Det. di Strasse; e talvolta invece disegnando uno spazio teatrale dentro allo spazio pubblico della città, e annunciando a programma, a una data e un orario predefinito, lo svolgersi di uno spettacolo. Questo è accaduto tutte le sere in Piazza Ganganelli e in Piazza delle Monache, ed è accaduto anche per (untitled) (2000) nello spazio retrostante il Lavatoio. Non solo, quindi, la performance di Frank Willens poteva bastare da sé, in pochi secondi, a far comprendere a chiunque che si trattava di uno spettacolo di danza. Il festival aveva rinominato come “teatro” un certo luogo della città, che così non perdeva la sua natura di spazio pubblico (natura che nessun gesto può o dovrebbe poter sottrarre), ma ne acquisiva temporaneamente un’altra che vi si sovrapponeva.

Questo per dire che lo spettacolo non è stato presentato in assenza di contesto, al contrario. Vi era un forte contesto spazio-temporale (il luogo e l’orario a programma) e vi era un contesto umano e concreto fatto delle persone del festival, riconoscibili con i loro badge, e poi dagli spettatori riunitisi apposta per assistere alla performance. Vi era infine un contesto culturale specifico, quello di un festival che ha costruito le sue linee artistiche, e le ha presentate e discusse sia nei suoi testi e materiali editoriali ampiamente diffusi, sia a Santarcangelo in Consiglio comunale e in una presentazione pubblica del programma alla città: linee di ricerca sul rapporto tra arte e scandalo e più precisamente su che cosa l’arte può fare e che cosa le è permesso di fare, nei luoghi deputati e nello spazio pubblico.

Al di là quindi del fatto che credo non vi fosse, nella performance di Willens, nulla che potesse ferire lo sguardo di nessuno, questa era presentata in un contesto specifico, annunciata in un programma, e svolta in uno spazio che per un’ora accettava di farsi (anche) teatro.

LA NATURA DELLO SCANDALO

Un altro punto fondamentale di un discorso su questo “caso”, dopo la necessità di misurarci con la verità della scena di cui parliamo, e spiegato il contesto in cui l’opera è stata presentata e i mezzi con cui questo era stato reso visibile a tutti, è quello della natura profonda dello “scandalo” che si è creato. Ammesso naturalmente, e a questo punto vorrei sperarlo, che qualcuno si sia davvero sentito scandalizzato o urtato dalla scena a cui ha assistito; che a qualcuno abbia fatto problema un’immagine, o meglio un corpo, e non solo che quell’immagine e quel corpo si siano presentati come un’occasione da tempo attesa di polemica e di attacco a un’organizzazione artistica e a un’istituzione pubblica.

Sono infatti convinta che il corpo, la sua soggettività estrema, la sua bellezza e fragilità, possa effettivamente far problema, possa essere un “inciampo” (è la parola all’origine etimologica di “scandalo”) al nostro senso comune, al nostro individuale rapporto con il mondo. Il rapporto tra il corpo e lo scandalo, o meglio ancora tra il corpo in scena e lo scandalo, è antichissimo, e ha segnato fortemente la storia del teatro e della danza in Occidente: dal divieto della scena alle donne alla sepoltura in terra sconsacrata degli attori, per non fare che due esempi, sino a molti casi novecenteschi e contemporanei, alcuni dei quali sono stati ricostruiti e presentati al pubblico di Santarcangelo da un altro spettacolo di cui nessuno sembra essersi accorto, 69 positions di Mette Ingvartsen. Che il corpo fosse al centro di questa edizione poi, è stato ampiamente scritto e detto, e sono stati commentati e analizzati dalla critica teatrale, con parole di grande lode, il corpo di Arkadi Zaides alle prese con i gesti di violenza e occupazione dei coloni e soldati israeliani, ripresi dalle videocamere di B’Tselem; il corpo di Silvia Calderoni che in Mdlsx dei Motus ci fa viaggiare tra i generi sessuali, in una ricerca di verità che attraversa le categorie su cui ci accomodiamo, e che con dolcezza e con grazia ce le fa crollare davanti agli occhi, ponendoci di fronte a un corpo androgino, un corpo-mostro come qualcuno pensa, un corpo-sirena. E l’elenco potrebbe continuare con i corpi di attrici che nel progetto di Mette Edvardsen si fanno libri e si leggono agli spettatori in un incontro individuale; con quelli delle azdore che hanno lavorato con Markus Öhrn… e ancora i corpi quasi immobili del regista iraniano Amir Reza Koohestani, un uomo e una donna che non solo sono lontanissimi dal toccarsi ma faticano a scambiarsi uno sguardo, in uno spettacolo che ci racconta così tanto dell’intimità e del suo prezzo.

Ma c’è un altro corpo che non è stato mai evocato nel dibattito di questi giorni, e al quale credo che dobbiamo tornare, se vogliamo fare una riflessione seria su (untitled) (2000) e affrontare le questioni che quest’opera ha sollevato. È il corpo di Sascha Ö. Soydan, l’attrice che, diretta da Milo Rau, ha portato in scena, in Piazza Ganganelli in apertura di festival, il discorso pronunciato dal pluriomicida e terrorista nazionalista Anders B. Breivik di fronte al tribunale norvegese che nell’aprile del 2012 lo processava per le stragi di Oslo e Utoya compiute nell’estate precedente, esattamente quattro anni fa.

Abbiamo assisito, in piazza a Santarcangelo, al re-enactment di questo discorso terribile: abbiamo ascoltato parole così folli, così banali e così lucide che le autorità norvegesi le avevano ritenute tanto pericolose da vietarne la diffusione fuori dal tribunale. Abbiamo chiamato “teatro” una piazza e, insieme a un artista, ci siamo permessi di stare attoniti di fronte alla banalità dell’orrore, e attoniti abbiamo ascoltato quelle parole, il silenzio di chi sedeva accanto a noi, e i commenti di qualche passante: «fascisti!», ma anche «ha ragione, devono tornare tutti a casa loro».

Di questo gesto artistico, non della performance di Sehgal, abbiamo provato paura, al momento della composizione del programma, e su questo ci siamo fatti le domande che oggi tanti sembrano porsi di fronte a un nudo e a uno spruzzo di orina: che cosa significa portare questo spettacolo nello spazio pubblico? Siamo pronti, come collettività, a sostenere il peso di quell’orrore, a metterci di nuovo di fronte a quel capitolo agghiacciante della storia europea recente? Può il teatro essere il luogo in cui lo scandalo – etico, umano – di quelle parole risuona per essere compreso, contestualizzato, allontanato da noi? Ci siamo interrogati a lungo, e sulle parole di Breivik abbiamo invitato a discutere con gli artisti e con la piazza Wlodek Goldkorn e Marcello Veneziani, moderati da Gigi Riva, per approfondirne i contenuti e contestualizzarli nel dibattito politico italiano. Ci siamo interrogati, ci siamo assunti una responsabilità, abbiamo voluto sollevare una questione. E non è successo nulla: nessuno ha gridato allo scandalo, nessuno si è sentito urtato nella sua sensibilità, nessuno ha pensato che non fosse uno spettacolo adatto ai bambini che potevano incidentalmente trovarsi in piazza.

Due settimane fa quel silenzio, quella mancanza di reazioni, hanno portato Milo Rau a interrogarsi con noi su quanto duri l’indignazione, su quanto siamo assuefatti alla retorica populista e fascista, su quanto poco abiti in noi l’orrore per i gesti anche più atroci compiuti dall’uomo contro altri uomini. Ci siamo detti che forse quel lavoro ha fatto il suo tempo, che forse oggi il teatro, per mettere il dito nelle ferite aperte delle nostre società, deve toccare altre questioni, portare in scena altre storie, produrre altre immagini.

Oggi, alla luce di cinque giorni densissimi di una polemica frontale e violenta contro il lavoro di Sehgal, il festival che l’ha presentato e chi lo sostiene, sono attonita. Onestamente, non pensavo che la nudità e che l’orina (in scena nel modo che si è detto, con un atto che non ha nulla di provocatorio o indecente) potessero urtare a questo punto la sensibilità di alcuni, potessero toccare un nervo così scoperto. Non avevo immaginato – e questo è stato un errore di valutazione evidentemente – che nell’Italia di oggi a fare scandalo potesse essere qualcosa di così semplice e bello come un corpo umano, un gesto così pudico e infantile come il suo farsi “fontana”, nel momento ultimo di dono di sé di uno dei più grandi danzatori contemporanei. E se qualcuno davvero da quel gesto, da quell’immagine, si è sentito urtato, mi scuso sinceramente, perché non era nell’intenzione di nessuno, né dell’artista né mia, compiere un gesto provocatorio con quella scena, al contrario.

LA POLITICA, O DI CHE COSA STIAMO PARLANDO

Un ultimo punto, affinché tutto questo discorso non suoni eccessivamente ingenuo.

Mi è chiaro, come credo lo sia a tutti, che da giorni non si sta più parlando di Tino Sehgal, della performance di Frank Willens, della differenza tra un teatro e uno spazio pubblico, di quale limite sia giusto, eventualmente, dare all’opera d’arte. Si sta parlando, anzi urlando, di politica, e nel modo più svilente per una delle parole fondamentali del nostro vocabolario. Si sta strumentalizzando un fatto (o meglio ancora la lettura e la presunta notizia di un fatto, che come si è visto non corrisponde neanche a verità) per attaccare un festival e le amministrazioni pubbliche che quel festival sostengono, arrivando a suggerire l’illegittimità del finanziamento pubblico per una manifestazione artistica che possa presentare contenuti che suscitano scalpore. Si sta riducendo uno spettacolo importante a un futile gesto di provocazione, e uno dei maggiori festival europei di teatro contemporaneo a una manifestazione di teatro di strada tenuta solo a intrattenere il pubblico e a portare economie per le attività commerciali della città.

La politica dovrà prendere la parola a un livello più alto, e spero che voglia farlo, per difendere l’operato di un festival che si vede ora ridotto a una sola immagine, quando per dieci giorni ha portato in scena voci importanti di artisti di tutto il mondo, sollevato questioni serie, costruito un contesto in cui una città potesse farsi teatro e in cui abitanti, artisti, studenti, professionisti e spettatori potessero ritrovarsi insieme, e insieme emozionarsi e pensare.

E spero vorrà prendere la parola anche il mondo artistico e culturale, affinché attorno a questo “caso” si possa aprire un vero dibattito, in cui posizioni diverse possano essere articolate e in cui possa sentirsi anche la voce di chi quello spettacolo lo ha visto e apprezzato, e soprattutto di chi, al di là del caso specifico che stiamo discutendo, condivide certi principi e certe inquietudini rispetto all’arte, a ciò che può fare, al suo statuto, al suo rapporto con la realtà. E quindi il diritto di vedere, e il dovere di parlare alla luce di quel che si è visto, assumendosi la responsabilità del proprio sguardo; il ruolo dei contesti nell’inquadramento degli accadimenti e nella definizione del loro statuto artistico; la necessità di una riflessione sul limite di ciò che come collettività riteniamo accettabile (in arte, e nello spazio pubblico), e su quali forme suscitano scalpore e reazioni censorie; la differenza tra un dibattito – artistico, culturale, etico, politico – e una mera strumentalizzazione, e tra un dialogo e un infinito accumularsi di posizioni individuali e di frasi gridate. Il diritto dell’arte, infine, a esprimersi e a essere discussa per ciò che dice e che fa, e la necessità di discutere di politica culturale e della legittimità dell’arte e delle organizzazioni artistiche con serietà, al di fuori di facili strumentalizzazioni e di una retorica populista che tutto svilisce, tentando di far presa sui sentimenti peggiori e proponendo un’idea di società in cui il dibattito politico, in tutte le sue forme, si riduca al nulla, o a uno schiamazzo personale che è peggio del nulla».

*direttrice artistica di Santarcangelo festival internazionale del teatro in piazza

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