Calandrini emerge dalle macerie
RAVENNA. Fondatore di due importanti festival cinematografici quali Corto Imola film festival e Nightmare a Ravenna, il ravennate Franco Calandrini è però divenuto negli ultimi tre anni anche autore di evidente talento, con all’attivo due lavori – È colpa di chi muore (Il Maestrale, 2011) e il recente Corpi estratti dalle macerie (Quarup, 2013) – di rara potenza.
Corpi estratti dalle macerie, che Calandrini presenta stasera (ore 18) al Tribeca di Ravenna per la rassegna “Librando”, è un’opera sorprendente per ritmo, originalità e stile, in cui i due protagonisti (la tedesca Martha e lo slovacco Ivan) danno vita in un claustrofobico interno kazako a un confronto feroce e complessissimo, vicino in qualche modo alle chirurgiche introspezioni psicologiche dei testi teatrali di Jasmina Reza.
Calandrini, qual è la genesi del libro?
«Il tema della scelta è uno di quelli che più mi appassionano, è uno dei più importanti e spesso dolorosi, che torna ripetutamente nella vita di tutti, quindi anche nella mia. Non sempre lo si risolve in modo indolore, meno ancora in modo eroico. Mentre nella vita spesso capita di esserne travolti, nell’arte è una sirena difficile da ignorare. Le scelte facili non esistono. E non è vero che una scelta c’è sempre. Penso sia capitato a chiunque un momento in cui non si è potuto scegliere. Il libro nasce da questa esigenza, dallo stare a guardare, come si fa con le cavie di laboratorio, come le persone si comportano quando c’è da fare una scelta che, in ogni caso, porterà dolore. Il tempo è poi un altro protagonista del libro, la sua mancanza soprattutto. E la mancanza di tempo è strettamente legata al paese in cui ho calato la storia».
Perché proprio questo luogo, il Kazakhstan, molto caratterizzato e inusuale?
«Lì è tutto più faticoso, più lento e ineluttabile. Il rapporto che gli abitanti di Atyrau hanno con il destino, collegato al fiume Ural, ha qualcosa di magico. Dicono che “chi è nato qui non ha nulla da temere perché il fiume Ural sfamerà tutti”. Me l’ha detta un avvocato, non un pescatore o un barcaiolo. E l’ho trovata commovente».
Il suo primo romanzo, È colpa di chi muore, si svolgeva in quella che poteva essere Ravenna. Qui invece siamo lontani e anche i protagonisti non sono italiani. Esigenze narrative o anche una sua voglia di allontanarsi?
«Avendo trascorso in Kazakhstan, per motivi extra letterari, il tempo giusto per rimanerne stregati, ambientare lì la storia mi è stato quasi inevitabile. Gli impedimenti oggettivi, che andavano a rallentare eventi che invece avrebbero avuto la necessità di accelerare, e le condizioni, più ambientali e linguistiche che climatiche, rappresentavano il contesto migliore in cui far precipitare tutto. Anche la scelta di diversificare linguisticamente l’origine dei due protagonisti è funzionale al contesto, perché rappresenta anche due modi opposti di rapportarsi alla vita. Da una parte Ivan, perfino naïf nella sua volontà di appartenere a un mondo di cui è solo ospite e che forse nemmeno lo vuole, e dall’altra Martha, che lo smaschera».
In Corpi estratti dalle macerie la crescita tecnica e stilistica, rispetto al suo pur ottimo esordio, è notevolissima. Che cos’è successo tra le due opere?
«In realtà avrebbero potuto – e forse anche dovuto – essere molto più diverse, perché una ha una matrice più classica mentre questa è d’ispirazione prettamente teatrale. Si tratta in ogni caso di racconti lunghi o romanzi brevi che dir si voglia, narrati in terza persona con una forte presenza del dialogo mimetizzato nella narrazione. È cambiata forse la densità. Quando si lavora su quantità così limitate viene naturale scavare. I concetti che vengono sviluppati in un racconto di queste dimensioni devono essere necessariamente pochi, se non si vuole correre il rischio di trattare le cose con superficialità. Nel romanzo precedente c’era un antefatto che muoveva la storia in modo quasi cronologico, con dissolvenze al nero di derivazione cinematografica ed ellissi narrative che lasciavano spazi da riempire. Qui siamo quasi alle tre unità aristoteliche».
Spesso la narrazione sembra un testo teatrale: ha pensato a una messa in scena?
«La verità è che nasce come testo teatrale “classico”, se così si può dire. La mia tesi di laurea era sul teatro di Arthur Miller messo in scena da Luchino Visconti, e quando per tanti anni studi e leggi e ti appassioni a quel tipo di teatro è ovvio che poi ti viene da scrivere allo stesso modo. Fortunatamente sul mio percorso ho incontrato Alessandro Agus, di Quarup Editrice, che mi ha fatto capire quanto sarebbe stato anacronistico pubblicare un testo fatto di battute dialogiche e indicazioni di regia, come invece si faceva ai tempi di Miller, Eugene O’ Neill, Tennesse Williams e compagnia. Sarebbe stato come rifare il King Kong ancora con i pezzi di plastilina».