Il bambino che col suo pianto salvò una barca dal naufragio

Rimini

CESENATICO. E’ uno dei tesimoni oculari della tragedia del lancione Consolata di 70 anni fa. E lo è perché con i suoi “capricci” di bambino ha salvato se stesso, i suoi familiari e quanti erano sulla seconda barca, quella rientrata in porto subito prima della tragedia. Lui è Pier Paolo Magalotti, di Borello, di 75 anni, fondatore della Società delle Miniere di Formignano. Ha scritto anche un racconto in dialetto pubblicato da ‘La Ludla’ su ciò che accadde. Magalotti spiega: «Ho sempre avuto paura dell'acqua. Non sono capace di nuotare. Da anni non vado al mare» nonostante gli inviti delle nipotine. E questa fobia deriverebbe «da quella domenica di luglio del 1946». Anche se aveva 5 anni e mezzo, i ricordi sono precisi e spesso riemergono nelle notti insonni. «Mio babbo e mia mamma in quella settimana non facevano che parlare della gita a Cesenatico per vedere il mare, che io non avevo mai visto». Poi la partenza di buon ora da Borello, con il furgone Gilera di 'Limon' «con tre ruote e il cassone dove erano sistemate delle panche per stare seduti. Eravamo diverse famiglie, forse una quindicina di persone tra grandi e bambini. Era una giornata bella, il caldo già di prima mattina si faceva sentire, eravamo stretti stretti in quelle scomode panche, ma contenti, le mamme avevano delle piccole tovaglie con il mangiare, uno aveva portato anche un cocomero... Finalmente arrivammo nella spiaggia. Nel vedere quell'enorme massa d'acqua, mi prese un po' di paura, poi però i giochi con la sabbia, le buche che riempivamo d'acqua e infine il buon mangiare mi fecero quasi dimenticare quella paura... La giornata era bella, l'acqua di quel colore azzurro che non ho più visto. Dopo pranzo arrivarono, nella spiaggia dove eravamo noi, delle barche usate per la pesca, con la vela color ruggine. Scesero dei marinai che parlarono con gli adulti, subito dopo i nostri vicini di spiaggia (mia mamma mi raccontò dopo che abitavano a Forlì) e che avevano tanti bambini, salirono sulla barca che prese il largo. Nella seconda barca cominciarono a salire quelli di Borello, scappai via correndo come un matto e con un pianto inconsolabile, mio babbo mi corse dietro e forse mi arrivò una sculacciata per cui piangevo ancora di più, non volevo andare in mare. Arrivò a mettermi di peso nella barca e partimmo, ma io piangevo sempre e non c'era verso di calmarmi, alcuni tentarono con una caramella, altri con uno zuccherino, ma io continuavo a piangere. Intanto la nostra barca stava andando avanti, si vedeva in lontananza una nuvoletta, nulla di preoccupante, io continuavo a piangere come un disperato. Il marinaio, non potendo sentirmi piangere in quel modo, disse che ritornava indietro, girò la barca e piano piano ci avvicinammo alla riva. Tutto a un tratto si alzò un vento da far paura, le onde sembravano degli enormi cavalloni, spruzzi d'acqua ci bagnarono tutti. Non piangevo più solo io ma anche le donne che si stringevano i loro bambini. Una tempesta inimmaginabile, il marinaio fu veramente bravo e fece scendere tutti i borellesi. Un buio che sembrava notte fonda. Le cabine, che erano di legno, volavano via con le tende, sembrava la fine del mondo. L'altra barca, che era partita prima di noi, venne dal vento e dalla tempesta travolta e molti degli occupanti affogarono. Non potrò mai più dimenticare quei bambini, quegli adulti morti e stesi sulla spiaggia, quel colore bianco l'ho sempre davanti agli occhi».

«Credo che la mia paura dell'acqua sia partita da quel momento. Ho cercato di darmi una risposta di quegl'urli da matto di quella domenica di luglio. Credo che un bimbo di cinque anni nel 1946, quando non c'era la televisione, la radio o tutti quei marchingegni di oggi, avesse ancora quell'istinto primitivo proprio degli animali che presagiscono che stava succedendo qualche cosa di veramente eccezionale, come il cagnolino, si dice, che sente il terremoto un po' prima che avvenga; allora ho incominciato a piangere e forse per quelle urla ci siamo salvati».

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