L'isola di Paolo Rumiz

Rimini

“A viaggio finito, mi accorgo che in quei giorni ho aderito al presente in modo totale, forse come mai in vita mia”. Con queste parole Paolo Rumiz sintetizza nel suo nuovo libro (Il Ciclope. Feltrinelli, Milano, pp 149, euro 15,00) la sua straordinaria esperienza di vita su una misteriosa Isola dove troneggia un faro, anzi il Faro, il più solitario, alto e potente di uno dei tanti mari che compongono il Mediterraneo.

A riguardo, se Rumiz preferisce tacere le coordinate geografiche dell’isola, alla maniera di quei pirati che custodivano gelosamente i riferimenti dei luoghi di sepoltura dei loro tesori, noi romanticamente vogliamo immaginarla in Adriatico, sperduta nelle acque del nostro mare quotidiano. Quell’Adriatico di cui Trieste, da dove Rumiz parte e ritorna sempre, è una capitale; quell’Adriatico la cui storia incarna, forse meglio di ogni altro mediterraneo, un’unica certezza: “il mare non ha frontiere”. Ed è sempre Rumiz a scrivere che “Come triestino, appartengo a Venezia e Cattaro, Ancona e Spalato, Curzola e Bari. E in quanto tale sono anche la quintessenza del Mediterraneo perché il mio mare è quello “dove l’Altro è più vicino”, riprendendo le parole di Sergio Anselmi, uno dei nostri più illuminati padri adriatici. Quindi, senza alcun sciovinismo, noi con Rumiz dichiariamo “ego adriatus sum”, io sono adriatico, e noi che siamo adriatici “sentiamo il mare come casa di tutti e intendiamo nel modo giusto la definizione “Mare nostrum”, che non ha niente a che fare con la proprietà, ma con l’appartenenza.

Il libro è suddiviso in brevi capitoli, i cui titoli letti uno dopo l’altro, diventano una litania laica, un inno a Giona, il profeta che visse nella balena e a cui sono proprio dedicate le prime pagine. Perché anche l’autore, appena sbarcato sull’isola, viene inghiottito, non da una balena ma da un’altrettanto famelica “macchina di luce”. E così la notte, il precipizio, l’asino, l’iguana, arcipelaghi, il monile, la mantide e tutti gli altri titoli diventano una specie di formula magica, per attrarre anche il lettore nell’incanto di un “viaggio immobile”. Ora dopo ora, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, Rumiz ci rivela che “Gli arcipelaghi dell’anima sono infinitamente più misteriosi e complicati di quelli reali. L’aldilà è a un passo; e io sono deciso a vivere fino in fondo questa percezione pelagica del mondo”. Ma la percezione pelagica può strutturarsi se solo si accettano i tempi lunghi della natura, se si è disposti a sincronizzare il respiro profondo degli elementi e quello altrettanto abissale dell’io. Le riflessioni si alternano con i racconti di difficoltà e meraviglie quotidiane del vivere, a partire da quelle dei faristi che ancora oggi fanno una vita durissima, ma al contempo con libertà da re e autorità da sacerdote. Perché si organizzano il lavoro in completa autonomia e custodiscono una luce sacra al marinaio.

Il racconto si arricchisce anche di testimonianze altrui, tra cui quella di capitan Sandro Chersi, un triestino molto noto nel mondo della vela anche a Rimini, quando negli anni Ottanta la regata Rimini-Corfù-Rimini era all’apice del suo successo. L’ammirazione di Chersi, che ha navigato in tanti mari del mondo, va innanzitutto per tutti quei meravigliosi “nostri” fari adriatici... gli indistruttibili bastioni che a partire da Trieste la defunta monarchia austroungarica aveva distribuito sulla costa orientale”. E se Chersi sceglie il faro della Vittoria, un monumento alla redenta Trieste, e il faro di Pelagosa, il cassero di un’isola che è una vera e propria nave di pietra ancorata esattamente al centro dell’Adriatico, noi non possiamo non ricordare l’incanto vissuto da ragazzi, quando a bordo di una piccola barca di sei metri attraversavamo l’Adriatico solo con carta e bussola, cercando per ore all’orizzonte i 3 lampi bianchi ogni 15 secondi del gigante di Capo Promontore, l’estremo occidente dell’Istria, o i due lampi ogni 20 secondi dell’altro gigante di Punte Bianche, sull’Isola Lunga.

Ed è proprio Rumiz a ricordarci che i fari mediterranei non hanno niente da invidiare a quelli oceanici. “A chi come me, è nato in Adriatico, non la darete a bere che i fari più belli d’Europa stanno in Bretagna o Cornovaglia”; in quanto a fari, “Il Mediterraneo non è da meno”.

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