La giornalista riminese Michela Monte nella Flotilla per Gaza: «Un atto di libertà»

C’è anche Rimini nella missione umanitaria Global Sumud Flotilla partita ieri dalla Spagna alla volta di Tunisi con destinazione finale Gaza. A bordo di una delle decine di imbarcazioni provenienti da 44 Paesi è salita la 49enne Michela Monte, giornalista e filmmaker riminese, corrispondente per vari media da New York dove abita in pianta stabile dal 2018. sieme a 300 volontari civili, tra cui anche l’attivista svedese Greta Thunberg, consegnerà attorno alla metà di settembre cibo e medicine alla popolazione palestinese cercando di spezzare il blocco israeliano sulla Striscia.
Monte, perché ha deciso di imbarcarsi?
«Mi trovavo a New York, il 7 ottobre 2023, quando si è consumato l’attacco di Hamas contro Israele. Da allora ho assistito alla soppressione del dissenso, persino nelle università, da sempre considerate santuari della libertà di espressione, a cui è seguito un giro di vite anche sul diritto a manifestare e sulla libertà di informazione. Un clima di cui in Italia si parla poco, ma che è riecheggiato dagli arresti di massa in stile squadrista voluti dal presidente statunitense Donald Trump in tema di immigrazione. Quindi sono qui per documentare un atto di solidarietà verso un popolo vittima di genocidio ma anche per dire “no” a quanto sta succedendo nel mondo dei media, che hanno sposato in modo acritico e colpevole la narrazione filoisraeliana, supportata da tutti i governi essendo le lobby israeliane a determinare la politica negli States».
A Gaza sono stati uccisi oltre 200 giornalisti, qual è la sua reazione?
«La nostra professione è in pericolo. Non possiamo e non dobbiamo far finta di niente. Per salire a bordo ho perso lavori ma sono convinta dei miei sacrifici poiché non è questa la società che voglio».
Come sta andando la navigazione?
«Non posso fornire molte informazioni, solo dire che mi trovo su un ex peschereccio ricevuto in dono. Siamo usciti indenni da una tempesta terribile, con vento a 30 nodi, che si è scatenata la sera del 2 settembre scorso a Barcellona, dove ci eravamo fermati per caricare gli aiuti e controllare i passaporti. Oggi (ieri, ndr) siamo in partenza per Tunisi, dove ci ricongiungeremo con le barche italiane che non hanno subito danni».
Come organizzate la quotidianità?
«Tutti fanno un po’ di tutto anche se c’è un’équipe che si occupa delle questioni più tecniche. Siamo in 14, ripartiti equamente fra uomini e donne, la più giovane ha 25 anni, il più grande oltre 60 e in generale tutti i mestieri, dagli artisti ai medici sino ai sacerdoti, sono rappresentati. Quanto alla comunicazione è elaborata perché in ogni imbarcazione si parlano più lingue, per cui ogni discorso deve essere tradotto almeno due volte».
Come socializzate?
«Mangiando insieme. A me hanno affidato la gestione della cucina. Non so se riuscirò a preparare un piatto romagnolo ma abbiamo un pane che assomiglia alla piada e ha convinto tutti».
Ha paura?
«Ogni istante. L’esercito israeliano uccide bambini in un conflitto sconosciuto a qualunque pagina di storia o di diritto internazionale. Questa è un’impresa civile e vogliamo tornare a casa dopo aver fatto breccia nell’opinione pubblica, poiché la guerra è drammatica per tutti. Senza dimenticare che da questo conflitto si misura ciò che vivremo dopo».
Sumud significa resilienza: c’è un’altra parola che vi lega in modo indissolubile?
«Libertà, quella negata in Palestina e quella affermata con questa missione. L’auspicio è che quanti la reputano inutile cambino idea perché abbiamo bisogno di energia positiva».