Il femminicidio di Giulia, Lucia Annibali: “Si lanciano messaggi evocativi ma non si parla di investire risorse”

Rimini

RIMINI. La battaglia contro la violenza maschile va condotta in maniera trasversale. Non si risolve solo su un’onda emotiva. E’ un problema innanzitutto culturale. E soprattutto ha bisogno di risorse. Lucia Annibali ha le idee chiare, Avvocata del foro di Urbino, ex parlamentare, ha vissuto in prima persona la violenza maschile nel 2013 con l’aggressione all’acido progettata dal suo ex.

Cosa ha provato in questi giorni?

«Ho provato molto sgomento e dispiacere. Avrei voluto scrivere qualcosa, un tweet o qualsiasi altra cosa rivolta alla famiglia ma non ho trovato le parole perché è molto difficile trovare parole adeguate in questi casi, ma ho provato molto molto dispiacere».

Spesso capita che a ondate emotive si parli del problema ma ci ritroviamo sempre punto e a capo. Come mai?

«Si continua a parlare di questo problema perché i fatti continuano ad accadere, anche se ci sono storie che ci colpiscono di più sul piano giornalistico e comunicativo e suscitano un’indignazione maggiore. Si aprono dibattiti che però il più delle volte contengono degli elementi e dei pensieri inascoltabili o improponibili come quando si scaricano responsabilità sulle donne e ci dimostra quanto ancora sia inadeguato il piano del linguaggio. Quello che manca è la consapevolezza che il tema della violenza maschile sulle donne si rinnova ogni giorno e non va affrontato un pezzetto per volta, in base alle caratteristiche dell’ultimo caso di cronaca. Adesso si parla di educazione sentimentale nelle scuole ma se ne parla da anni. Il coinvolgimento delle scuole deve essere continuativo, strutturale. Manca la capacità di comprendere che vanno investite delle risorse economiche, che vanno implementate anziché ridotte».

La sensibilità all’argomento si vede quindi anche in base a quanto si è disposti a spendere...

«Sì. Il problema va affrontato in modo trasversale con tutta una serie di obiettivi che non rispondono solo al piano emotivo, al piano della sicurezza con l’aumento delle pene o la creazione di nuovi reati, intervenendo solo sul piano penalista con modifiche al codice penale o a quello di procedura penale. Tutti impegni a costo zero... Bisogna vedere nella prossima legge di bilancio quanto si investirà su questo tema. Quello che manca è il coinvolgimento di tutti i ministeri in modo trasversale su questo problema. Il Ministero dell’Istruzione dovrebbe creare progetti sull’educazione sentimentale o sessuale. Ma non solo. E il problema riguarda anche tutti gli altri ministeri. Il nostro faro è la convenzione di Istanbul. Vanno costruite politiche di prevenzione ma anche di reinserimento delle donne nella vita sociale ma va affrontato anche il tema del trattamento nei confronti degli autori di violenza. Nel momento in cui diciamo che dobbiamo buttare la chiave e far marcire queste persone in galera, ci dimentichiamo di quanto sia alta l’incidenza della recidiva. Va affrontato il tema di cosa fare nell’esecuzione della pena collegata a questi reati. Si lanciano messaggi evocativi ma non sento mai dire che si vogliono investire delle risorse».

Crede nella possibilità che la politica possa lavorare assieme superando gli schieramenti, crede in una collaborazione, almeno su questo tema, di Meloni e Schlein, per esempio?

«Ogni governo ha una sua sensibilità e quindi c’è chi crede più a misure in termini di sicurezza e chi privilegia altri aspetti. La sensibilità sull’argomento c’è ed è trasversale ma bisogna vedere come si traduce poi nei lavori concreti del Parlamento, quanto delle proposte che vengono dalle altri parti vengono assorbite dal governo. Al tempo del Codice rosso non fu così. Però il Parlamento in certe occasioni ha votato all’unanimità. Questo sì. Ma ripeto, ognuno può avere le proprie sensibilità, ma quel che conta ed è importante è il reperimento delle risorse per dare progettualità alle azioni politiche. La forza sta nella capacità di avere risorse importanti. Io mi sono battuta per esempio per il reddito di libertà».

Come dire che ogni politica ha bisogno del suo portafoglio...

«Sì, certo. Il reddito di libertà è una risposta alla violenza domestica, un sostegno alle donne e ai loro figli che intraprendono un percorso di uscita dalla violenza. La dipendenza economica della donna ha a che fare con l’organizzazione economica della nostra società e rallenta o frena l’uscita e il percorso di ricostruzione: una nuova casa, le spese per l’educazione dei figli... Sono tanti gli elementi su cui bisogna intervenire per quanto riguarda l’organizzazione della nostra società: disparità economica, di potere sociale, di carriera, di stipendi. Bisogna sgretolare tutto quello su cui si alimenta la violenza maschile sulle donne. Un lavoro complesso, importante e necessario».

Di recente le è capitato di scontrarsi ancora con atteggiamenti violenti e maschilisti?

«Più che altro nei social. In certi ambiti c’è un pensiero collettivo per cui la donna che ha subito violenza deve restare vittima e basta. Se poi intraprende una carriera o riveste ruoli politici sembra quasi che se la sia cercata per trarne vantaggio!».

Famiglia, scuola, social... dove si possono trovare le maggiori responsabilità?

«Tutto ciò si perde nella storia. La disparità di potere, le vessazioni, gli abusi, gli stereotipi, le privazioni hanno radici profonde. I fattori sono tanti ma tutto ha a che vedere con la cultura in cui siamo immersi. Non parliamo mai per esempio della violenza assistita: i figli che assistono a comportamenti violenti nei confronti della madre. È dimostrato che questo vissuto può incidere su figli quando saranno grandi. Alla radice c’è sempre il fattore culturale ed è per questo che l’approccio deve essere trasversale».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui