Morrissey "santo" vivissimo

Rimini

CESENA. Chissà perché il carismatico, talentuoso, misterioso “Moz” non è famoso a livello planetario come i Rem, con cui condivide(va) la struggente emotività della musica. Però Steven Patrick Morrissey– mezzo irlandese (lo dice il nome: Patrick), mezzo inglese, di Manchester – sembra non curarsene, preso com'è dall'impegno sociale e politico, e soffuso da un alone di “santità” che lo rende iconico nello strambo mondo dello showbiz.
Lo spazio non è migliori, e c'è da capirlo Morrissey quando, come ha fatto nel 2014, critica i palazzetti o i club italiani. Per di più, il Carisport cesenate non è neppure pieno (il concerto è stato annunciato solo dopo il sold out di Napoli), anche se i fan più accesi lo attendono sotto il palco da ben prima che la serata inizi.
E poi finalmente inizia, con oltre mezz'ora di ritardo, e allora è la voce di Morrissey che riempie ogni spazio, che arriva in ogni anfratto, pura, potente, piena. E se la sua carriera solista, dopo la breve e fortunata parabola degli Smiths negli anni Ottanta, ha avuto alti e bassi, la serata dimostra che l'ispirazione è ancora alta, e il repertorio (dieci album da solista) vasto e concreto.
Moz si concede volentieri, stringe la mani che gli si tendono davanti, il Carisport sembra un rock club e le guardie del corpo devono intervenire spesso; un ragazzo quasi riesce a farsi spingere sul palco ma è fermato prima di arrivarci.
Morrissey è ottimamente supportato da una band anglo-latina in cui chitarre e percussioni sono ben presenti: Boz Boorer chitarra e voce, Jesse Tobia chitarra, Armando Lopez basso, Gustavo Manzur tastiere e molto altro – canta pure qualche strofa in spagnolo e si cimenta col flamenco – e Matt Walker batteria.
Il concerto parte da lontano, da quella “Suedehead” con cui debuttò nel 1988 come solista, non prima di avere intrattenuto il pubblico con una serie di video, dai Ramones a Charles Aznavour. C'è anche un filmato in cui la poetessa americana Anne Sexton, morta suicida, legge la sua “Wanting to die”. Perché la musica è importante, ma le parole lo sono altrettanto nel mondo di Morrissey. E mentre scorrono sullo schermo immagini di poliziotti che picchiano manifestanti (“Ganglord”, del 2006), lui, impeccabile nella sua camicia dai risvolti dorati, ringrazia compostamente il pubblico: «You're very kind».
“World peace is none of your business” è del 2014, e Moz la accompagna con un gigantesco gong che riempie la scenografia. “You have killed me”, che Morrissey registrò a Roma nel 2005, è un commosso tributo a Pier Paolo Pasolini (ai tempi parlò di una «vendetta» per l'intellettuale ucciso), di cui campeggia sullo sfondo un'immagine. Morrissey vi inserisce anche il nome di Fellini, anche se Cesena non si scalda per l'omaggio ai due giganteschi emiliano-romagnoli.
Arriva il momento dell'animalismo: c'è “The bullfighter dies” contro la corrida; poi dedica a se stesso “Everyday is like sunday”, ancora da “Viva hate” del 1988, storia di un uomo con poche prospettive per il futuro, facendone un mash up con “Quando quando quando” di Tony Renis. E infine ecco le immagini cruente di allevamenti e uccisioni che introducono “Meat is murder”, bandiera del suo (e di molta parte del pubblico) animalismo.
Alle 23.30 le luci si spengono ma c'è tempo per il bis: «You've been... bellissimo» dice, e compare la regina Elisabetta che fa un gestaccio (“The queen is dead”); da sotto il palco gli porgono un foglio e lui se lo mette in tasca poi, con un gesto rituale, si toglie la camicia tra le grida e la getta ai fan.
E se la regina è morta, Morrissey è vivo e vegeto.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui