Incidenti: ecco perché sono tutti gravissimi

Rimini

A metà di una mattina della scorsa settimana, una donna ha pubblicato su una delle pagine Facebook più frequentate di Rimini l’immagine di un’ambulanza di fronte una scuola elementare cittadina. Un signore, evidentemente dotato di cervello funzionante, qualcuno si aggira ancora sui social, le ha fatto notare l’assurdità dell’allarme lanciato, sottolineando che i genitori del bambino coinvolto certamente sarebbero stati prontamente informati. E che, di contro, con quell’immagine, la signora stavano condannando al panico anche tutti gli altri. Peraltro con un allarme del tutto inattendibile. Quante volte il personale del 118 deve correre lungo le strade per poi constatare che il paziente non è affatto grave? Per fortuna nella grande maggioranza dei casi.

L’informazione locale sui siti internet funziona in maniera del tutto analoga. E’ sufficiente che sullo smartphone di un aspirante giornalista, spesso alle prime armi ma incaricato di occuparsi anche di cronaca nera, arrivi una mail dal 118 - è prassi la comunicazione con le redazioni - con dettagli estremamente vaghi su un episodio spiacevole, ad esempio un incidente stradale, che, tempo due o tre minuti, la notizia viene piazzata in apertura di sito e postata sulle pagine Facebook del circondario. Il livello di verifica della notizia è pari allo zero.

La comunicazione del 118 è essenziale, limitata alla tipologia dei mezzi e delle persone coinvolti, insufficiente per scrivere un articolo. Viene indicato il codice di gravità dei pazienti, in genere “tre”, su una scala di quattro. Ma si tratta del codice di partenza, condizionato da come li descrive chi contatta il 118. Nove volte su dieci il caso si sgonfia. Da “ciclista gravissimo”, come si legge nei titoli istantanei dei siti internet, si passa a una prognosi di un cinque giorni, da “pedone in fin di vita” a due costole rotte. Da notizie sparate a caratteri cubitali a non notizie. Basterebbe aspettare, dare il tempo ai medici di visitare il paziente, fare una chiamata di verifica. Ma niente...


Il risultato è deleterio: il panico sulla città. Chi, per esempio, immagina che il proprio figlio possa essere passato dalla zona indicata come luogo dell’incidente viene travolto dall’angoscia, si attacca al telefono, ha bisogno di sapere, altrettanto istantaneamente, se sta bene. E più il titolo viene appesantito dalla gravità della prognosi (che in realtà nel momento in cui la notizia viene pubblicata non esiste ancora) più il fenomeno dell’angoscia collettiva si amplifica e, di conseguenza, i clic al sito aumentano, decuplicano. Questa però non è informazione: è il comportamento totalmente irresponsabile di chi, pur di vendere un banner pubblicitario, si priva di qualunque scrupolo.


L’Ordine dei giornalisti, organo di vigilanza sulla professione, non a caso sempre più bistrattata, non ha poteri per impedire questo tipo di sciacallaggio dei siti internet. Richiamare i direttori responsabili e i loro sottoposti, a maggior ragione se iscritti all’Ordine, mettendoli di fronte alle proprie responsabilità sociali, che evidentemente ignorano di avere, può essere comunque un primo passo. Poi c’è la formazione. Sempre più necessaria. Un tempo passava qualche anno prima che un giornalista in erba potesse scrivere di un incidente: nei siti di informazione locale il servizio viene assegnato al primo che passa in redazione. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: il giornalismo, che non è più tale, si mette in diretta concorrenza con Facebook. Si può andare avanti così?

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