I nomadi, i profughi e i nostri incubi

Rimini

Viviamo perennemente connessi alla rete globale ma nella vita reale del terzo millennio ci rinchiudiamo dentro le mura come nel Medioevo. Il corso della storia sembra avere cambiato rotta: dopo secoli trascorsi sognando, andando alla scoperta del mondo, e decenni impiegati ad abbattere le frontiere, ora ci barrichiamo in casa angosciati dalla paura del diverso, qualunque faccia esso abbia.
Eppure di autarchico non abbiamo nulla. Non ci bastiamo. Compriamo vestiti ed elettrodomestici cinesi, mangiamo frutta e verdura raccolta dai magrebini, ci facciamo costruire la strada da muratori albanesi, affidiamo i nostri anziani alle ucraine e sposiamo donne straniere. Le statistiche servono a mettere a fuoco fotografie che rischiano di apparire poco nitide. Per dire: un riminese su sei si unisce in matrimonio con una donna che non è italiana, si legge nel bollettino statistico della Provincia. E, sempre per dire, nel 2016 il ventuno per cento dei bambini nati a Rimini ha genitori stranieri. La fotografia è quella di un territorio accogliente, poi però si riuniscono gruppi di cittadini che si mettono in posa col forcone in mano per fare capire, attraverso le pagine dei giornali locali, che i migranti se ne devono andare. E succede, per esempio, è storia di un paio di settimane fa, che un centro di accoglienza per profughi lungo via Marecchiese, sempre a Rimini, venga fatto oggetto di lanci di bottiglie e immondizia. Il messaggio è chiaro: non sono graditi. Come non lo sono i nomadi del campo di via Islanda, ancora a Rimini, nonostante molti di loro siano nati all’ospedale Infermi e abbiano frequentato o frequentino tuttora le scuole riminesi. Nel campo lungo il fiume Marecchia vivono undici nuclei familiari che il Comune vorrebbe distribuire in altrettanti quartieri, concedendo ai nomadi delle micro aree. Si è scatenato il finimondo: in ogni quartiere, dove è previsto al massimo l’arrivo di sei persone, è sorto un comitato per dire no ai nomadi con toni spesso in linea con quelli dell’Arizona dei tempi più bui.
Rimini come il Texas che erige il muro contro i messicani o come l’Inghilterra che se ne scappa dall’Europa. Fenomeno locale e globale. La crisi economica divampata negli ultimi anni del primo decennio di questo nuovo millennio ha spazzato via posti di lavoro, risparmi e certezze, finendo per scatenare paure e reazioni spesso scomposte. Il risultato è che chi ha un proprio orticello da difendere lo protegge a qualunque costo. Papa Francesco non perde neanche un giorno per lanciare l’appello all’accoglienza ma sono sempre più numerose le nazioni che scelgono governi che promettono muri ai confini e autarchia, tanto in Europa quanto nel continente americano.
La crisi spiega tanto ma non è sufficiente a motivare questo ripiegamento su noi stessi. Prima ancora di diventare la prima generazione della storia in cui i genitori vivono angosciati dalla certezza che il futuro dei propri figli sarà più povero del proprio presente, eravamo impalliditi di fronte alle immagini della diretta tivù durante la quale due aerei si schiantavano contro le Torri Gemelle di New York. Era l’11 settembre del 2001, il giorno in cui i terroristi ci sono entrati in casa. Da allora non se ne sono più andati, costringendoci a vivere in un mondo che anno dopo anno diventa sempre più piccolo perché in troppi Paesi non ci possiamo più andare. Passeggiamo in centri storici blindati con blocchi di cemento nella convinzione che così un camion non possa fare una strage, come a Nizza o a Berlino. A ucciderci sono piccoli gruppi di fanatici criminali ma ormai temiamo tutti i musulmani, 1 miliardo e 600 milioni di persone, il 23 per cento della popolazione mondiale.
Milioni di persone scappano da guerre civili, genocidi e carestie ma noi, impauriti e impoveriti, non siamo più attrezzati nello spirito e nel portafogli e così ci giriamo dall’altra parte e facciamo sapere che al massimo siamo disposti ad aiutarli a casa loro. Poi arrivano la retta dell’asilo, la rata del mutuo o l’affitto e la bolletta del gas da pagare e così salta anche la solidarietà a distanza. La dicono tutti alla stessa maniera: Prima il Nord, Prima gli italiani, Prima gli inglesi, Prima gli americani. Ognuno per sé e Dio per tutti. Prima sognavamo, adesso tentiamo di scacciare gli incubi.

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