Rimini, viaggio nel tunnel del gioco: "Un gratta e vinci e ci sono ricaduto"

«Da questa malattia non si guarisce. Lo dico per certezza. Però si può combattere». Maurizio, sessant’anni, di Rimini, componente del gruppo Giocatori anonimi cittadino, non ha il minimo dubbio al riguardo.
«Se parli con dei professionisti, degli psicologi o degli psichiatri, loro dicono che da questa malattia si può guarire. Però non è così – ribadisce –. Nella mia esperienza di Giocatori anonimi ho visto delle persone che hanno avuto delle ricadute dopo dieci/dodici anni e si sono fatti più male di prima. Perché un giocatore compulsivo non potrà mai più tornare a essere un giocatore sociale. Magari provo a giocare un euro per una slot machine, per una lotteria, per una scommessa. Ma so che quell’euro mi spingerà a tornare quello che ero prima. Perché mi ritorna l’adrenalina che avevo prima, quando giocavo. E’ per questo che non si guarisce. Però si può combattere, rispettando il programma che la nostra associazione ci dà».


Il racconto

Una ricaduta Maurizio l’ha sperimentata direttamente: «Ho cominciato a giocare in maniera compulsiva con i videopoker, una ventina di anni fa. La mia famiglia mi aveva scoperto, avevo cominciato a frequentare il Sert e avevo smesso completamente – racconta il riminese –. Sei o sette anni più tardi, dopo un sogno, ho giocato al Gratta e vinci e ho vinto una somma abbastanza significativa. E da quel momento la mia compulsività è ricominciata. Sono ritornato quello che ero prima, anche se con un gioco differente».


Gratta… e perdi

Con i videopoker e con i Gratta e vinci «giocavo per delle giornate intere, perché lavoravo di notte – aggiunge –. E giocavo fino a quando non rimaneva più niente dei soldi che avevo a disposizione giorno per giorno. Non smettevo finché i soldi non finivano. Uscivo quando non avevo più nulla. Giocavo sempre ed esclusivamente i soldi che guadagnavo, non ho mai rubato soldi alla mia famiglia o sul lavoro».
Fino a quando «a un certo punto ho deciso di farmi scoprire, perché non ne potevo più di una vista di quel genere – continua –. Sapevo che c’erano dei soldi nascosti e li ho presi. Ho pensato “Faccio scoppiare la bomba, ma almeno mi libero”. Perché ero arrivato a un punto in cui non ce la facevo più».


L’aiuto degli altri

Prima che la famiglia lo spingesse a frequentare il Sert e l’associazione, «mi rendevo conto di avere un problema, di fare qualcosa che non era normale, però ero convinto di poterlo risolvere da solo, di poter smettere quando volevo – racconta ancora Maurizio –. Invece non era così. Più il tempo passava, più io giocavo. Era più forte di me. Se non giocavo non mi sentivo bene».
Adesso «riconosco l’importanza di affidarsi a un potere superiore – conclude –, che nel mio caso è il gruppo, in cui parlo la stessa lingua di tutti gli altri, sono uguale a loro e nessuno mi critica».

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