Rimini, rubata la chat in cui si sfogano contro i capi: sospese 10 giorni

RIMINI. Dieci giorni di sospensione per aver espresso pareri poco lusinghieri sulla direzione della struttura sanitaria privata del Riminese per cui lavorano e sulla loro caposala. Se la loro rabbia fosse stata esternata in pubblico, quindi davanti a testimoni, forse nemmeno le due infermiere destinatarie della punizione avrebbero avuto niente da dire. Il problema è che i loro sfoghi, conditi da relativi pesanti commenti, l’insoddisfazione per come il lavoro nel reparto veniva gestito dalla caposala, li hanno fatti scambiandosi messaggi WhatsApp in due giornate. Chat di cui il direttore generale fa apertamente menzione nella contestazione disciplinare notificata alle dipendenti, dove i passaggi salienti venivano riportati con precisione imbarazzante. Imbarazzante perché per conoscerli così bene qualcuno aveva dovuto leggerli. Ma le uniche che ne conoscevano l’esistenza erano loro. Come erano potute arrivare, in forma “anonima”, in una mail indirizzata al direttore generale?

Il furto
Questo il dilemma che una delle due interessate ha chiesto venisse rivolto dal suo legale, l’avvocato Piero Venturi, ai vertici della struttura sanitaria. Lo ha fatto dopo aver avuto conferma dalla collega che anche lei non avesse mostrato il loro dialogo ad alcuno. A questo punto l’ipotesi che qualcuno avesse preso il cellulare di una delle infermiere costrette da regolamento a lasciarlo in una stanza accessibile a tutto il personale quando erano in servizio è diventata certezza. Perciò, attesa invano una risposta che non è mai arrivata dalla direzione sanitaria sul come era venuta in possesso delle chiacchiere tra amiche-colleghe, il passaggio successivo è stato quello di presentare la denuncia alla polizia postale.

La svolta
Gli investigatori della Postale hanno impiegato pochissimo per risalire al “corvo”: la mail era partita da un profilo intestato ad un loro collega, lo stesso che aveva aiutato l’infermiera “derubata” a programmare e impostare il codice di sblocco del suo apparecchio. Il nome del presunto colpevole è stato così iscritto nel registro degli indagati della Direzione distrettuale antimafia di Bologna. L’uomo ha affidato la propria difesa a un luminare, docente universitario e del Foro felsineo, il professor Nicola Mazzacuva. Che quando la procura antimafia gli ha notificato l’avviso di conclusione indagine a carico del proprio assistito ha chiesto venisse interrogato. Davanti al pubblico ministero l’uomo, che ha una disavventura datata per un furto, ha negato ogni addebito. E ha chiesto venisse ascoltato un ortopedico della clinica con cui il giorno dell’invio della mail ha detto stesso lavorando. Versione confermata solo in parte dal medico, ma sufficiente al procuratore per chiedere l’archiviazione. Azione cui ha presentato opposizione l’avvocato Venturi. Impossibile, a suo avviso, non tener conto delle prove d’accusa fornite, faticosamente raccolte vista «la totale mancanza di collaborazione da parte delle clinica».

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