"Disabile, nei corridoi deserti a scuola impara ad andare in bici"

Rimini

«Nei corridoi deserti ho insegnato all’allieva disabile ad andare in bici». In trincea contro il Covid è scesa anche la schiera invisibile dei docenti di sostegno che, al di là delle curve pandemiche, è rimasta a combattere in aule semi-vuote, per seguire gli studenti diversamente abili in presenza. A raccontare come è andata, in tempo dei bilanci che precedono sempre la fine di un anno scolastico, si fa avanti Francesca, insegnante di ruolo dal 1996 in un istituto professionale di Rimini, dove la Dad è ancora una realtà, visto che gli spazi esigui non permettono di ospitare tutti in sicurezza.


Francesca, quali difficoltà avete affrontato in quest’anno scolastico?
«Un’infinità. Alcuni colleghi hanno dovuto fare i conti con la paura e hanno avanzato perplessità, chiedendo perché i docenti curricolari (quelli delle varie discipline, ndr) potessero collegarsi da casa e noi no. Avendo una famiglia e genitori anziani, temevano tutti di divenire veicolo inconsapevole del virus, non essendo peraltro neanche vaccinati. C’è da dire che molti dei nostri ragazzi, per le loro stesse problematiche, non riescono a portare la mascherina o a proteggersi realmente dal contagio. Pur essendo timori legittimi però, io non li ho provati. Neanche a marzo quando ho dovuto affrontare il Covid. La maggior sofferenza è stata piuttosto veder colpire anche mia figlia, che è cardiopatica con comorbilità. Tant’è che appena ne siamo uscite, mi sono ripetuta un milione di volte quanto siamo state fortunate. Attorno a me intanto si sono ammalati in molti, sia colleghi che educatori, pur avendo messo in campo tutte le misure del caso. E nella tarantella delle quarantene abbiamo sostituito gli assenti, ben oltre il nostro orario, sostenendoci a vicenda. Nonostante tutto quindi, continuo a ritenere le scuole un luogo sicuro. Soprattutto non mi sono mai sentita sola, perché se si lavora in team, scattano sempre motivazioni forti».

Qual è stato l’impatto emotivo da affrontare, lavorando in aule deserte?
«Davvero faticoso. La scuola è vera nella confusione e nel colore: la sua essenza è il condividere. Invece in ogni istante il Covid ci ha insegnato tanto e ci ha tolto tanto. Non credo nella Dad, né penso che d’ora in poi costituirà una risorsa: la scuola si fa in presenza e basta. Detto questo, nel deserto noi abbiamo riscoperto la creatività. Ed all’inizio qualche allievo era persino più sereno, poiché una situazione del genere equivaleva ad uno scarico emotivo, ad una sorta di decompressione, nell’assenza di quegli stimoli che risultano spesso pesanti. Così nelle giornate fredde, anziché andare in cortile, ho insegnato ad un’allieva ad andare sulla bici con le rotelle, lí nei corridoi, circondata dall’incoraggiamento dei compagni. Davvero una grande emozione per tutti, difficile da spiegare. Ma visto che dai disegni dei ragazzi non emerge mai la rappresentazione del virus come un mostro, la serenitá ha finito col prevalere per tutti. Perché non si teme quello che si prova a conoscere. Si è dunque aperto un importante capitolo di lavoro. Con grande passione».

Di passione deve esserne servita molta anche lo scorso anno scolastico, quando il lockdown ha congelato la didattica, relegandola dietro agli schermi. Come vi siete organizzati?
«All’inizio eravamo spaventati da una situazione senza precedenti. Poi ci siamo rimboccati le maniche, attivandoci per tener tutti agganciati alla realtà scolastica. La finalità non era insegnare, ma mantenere gli alunni vicini ed impegnati, perché a casa erano sempre molto soli. Volevamo quindi evitare che scivolassero in comportamenti-problema, depressione o disturbi alimentari. Una prima soluzione consisteva nel fornire alle famiglie i materiali in uso a scuola, dotando di computer chi ne fosse sprovvisto. Ma stare collegati al monitor per 5 ore di fila era davvero troppo per i nostri ragazzi. Così abbiamo spalmato l’orario, restando a disposizione pomeriggio e sera. Anche se questo rendeva difficile gestire i nostri impegni familiari, occorreva farlo, sennò molti sarebbero rimasti inermi e paralizzati davanti al caleidoscopio di bollini».

Avete dovuto aiutare anche le famiglie?
«Siamo stati al loro fianco. C’era chi non sapeva usare il computer e chi doveva lavorare. Così abbiamo chiesto aiuto ai parenti perché facessero da tutor, dando istruzioni e inviando schede, ma è stata dura. Molte famiglie sono arrivate al burnout».

Qualche idea ha donato un po’ di sollievo?
«Gli educatori hanno organizzato i laboratori su Meet per educazione motoria, musica, cucina o lettura evocativa, svolgendo un lavoro egregio. Troppo spesso però si dimentica che dietro ciò che sul computer si brucia in fretta, c’è un impegno enorme. Che se non altro quest’anno ha rafforzato belle collaborazioni e sinergie tra colleghi, tanto inaspettate quanto efficaci».

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