Entrare nella mente di un assassino non porta necessariamente a verità definitive. Spesso sono le sfumature impercettibili a fare la differenza nella ricostruzione dei fatti, ancor più in quelli reali di cronaca nera. Uno di questi casi, in particolare, rimane ancora oggi a distanza di 10 anni, misterioso. Perché la sensazione è che, nonostante i processi e le condanne passate in giudicato, ci sia ancora una verità da raccontare su Marco Zinnanti, il killer di Covignano e su quel mondo tutto riminese in cui si muoveva. A raccontare solo una delle tante sfumature di questa vicenda che, appunto parte dal quartiere di via Acquario, tocca gli ambienti dello spaccio riminese per arrivare fin dentro i locali notturni, ci prova il docufilm “Non so perché ti odio”, con la regia di Filippo Soldi, genere Lgbtq, disponibile sulla piattaforma Prime Video. Con una locandina ad effetto, un bel corpo maschile nudo dal colore rosso su sfondo nero, “Non so perché ti odio” è consigliato ad un pubblico maggiorenne, e Rimini ne è protagonista con ben due vicende. Quella del “delitto dei pesciolini rossi”, un cold case che il sostituto procuratore Paolo Gengarelli risolse 14 anni dopo l’omicidio e quella appunto di Marco Zinnanti, che a 22 anni, uccise un tassista a Covignano, il 2 settembre del 2012. Ma se il killer dei pesciolini, Zoran Ahmetovic, nel docufilm racconta in vivavoce cosa lo spinse ad uccidere Max Iorio, il 38enne riminese, strangolato e poi accoltellato nel suo appartamento il 19 marzo 1997, di Zinnanti, il documentario ne fa una ricostruzione che lascia spazio a nuove domande.
La ricostruzione
Marco e la sua vittima, per scelta degli autori non sono direttamente identificabili, e la vicenda viene ricostruita attraverso un’intervista a chi indagò sull’omicidio, coordinando la squadra mobile della Questura di Rimini, Davide Ercolani. «Fu condannato a 30 anni di reclusione in abbreviato», racconta nella clip il pm, specificando che la richiesta della Procura era invece stata l’ergastolo. Una richiesta severa dettata dalle modalità dell’omicidio: i due colpi alla testa con un fucile a canne mozze, la fuga per sottrarsi all’arresto, il tentativo di confondere le acque di tutta una cerchia familiare fino alla confessione finale. Ma sul perché Marco sparò c’è ancora un’ombra di mistero.
Il processo
Durante il processo, anche per la linea difensiva dell’avvocato Marco Ditroia emerse quella che poteva definirsi una provocazione. A Zinnanti senza soldi per la corsa fu richiesto un pagamento in natura? È lo stesso killer che lo racconterà agli inquirenti, e tale richiesta lo portò ad uccidere. Quel «nervoso dentro», armò la mano dell’assassino. «Ma perché? Che cosa offende così tanto nel comportamento omosessuale?», si chiede il registra del docufilm. Nel caso di Marco Zinnanti è ancora senza risposta. «C’è una sorta di contraddizione – dice infatti il pm Ercolani – da una parte tutte le informazioni che abbiamo avuto, dagli amici, dai colleghi di lavoro del tassista, vanno nella direzione di una persona che non è omosessuale, di una persona che non ha mai avuto relazioni con persone dello stesso sesso. Non si esclude neppure che il tassista abbia detto cose che siano state fraintese, questo noi non lo sappiamo, non lo sapremo mai». Contraddizioni che emergono anche dalla vita di Marco Zinnanti, figlio di una famiglia residente in via Acquario, zona della città legata anche ad altri gruppi giovanili turbolenti dalla fine degli anni 80 fino ai 2000. In casa poi, gli inquirenti gli trovarono il Mein Kampf, ma la sera dell’omicidio usciva da un locale dell’Arcigay. La condanna di Marco, a prescindere dai perché uccise, arrivò un martedì mattina, il 28 gennaio del 2014, quando al termine dell’ultima udienza, il giudice Sonia Pasini con voce tremula dalla pesantezza della condanna che andava a pronunciare stabilì una pena di 30 anni.
Marco Zinnanti, difeso dagli avvocato Marco Ditroia e Matteo Casali ha scontato la metà della pena e tra meno di una quindicina di anni sarà un uomo libero. Condannato a 30 anni in abbreviato per l’omicidio di Covignano a 14 anni per il tentato omicidio di un antiquario omosessuale al parco della Cava e a 7 per rapina, in cella ne ha scontati già 11. Per la legge italiana quindi che pone un limite agli aumenti delle pene detentive e per effetto della buona condotta, entro il 2035 Zinnanti potrà uscire e tentare di rifarsi una vita a 45 anni. «La condanna di primo grado arriva nel 2014, davanti al gup del tribunale di Rimini – racconta il difensore di Zinnanti, l’avvocato Marco Ditroia –, ma Marco è detenuto dal settembre del 2012. Credo che qui bisogna valutare una cosa, quel processo poteva finire con una condanna all’ergastolo sicura e invece Marco uscirà e avrà una vita. Ricordo che molti colleghi mi battevano sulla spalla dicendomi che ad ogni avvocato almeno una volta nella vita arriva un ergastolo». Oggi Zinnanti è detenuto nel carcere della Dozza a Bologna ed è probabilmente una persona diversa da quel ragazzo che prima di uccidere a Covignano aveva già spaccato la testa in una rissa in stazione ad un trentenne che non aveva mai sporto denuncia. Appena maggiorenne, poi era rimasto coinvolto in un incidente stradale finito con una denuncia per simulazione di reato. In carcere Zinnanti ha preso una qualifica per lavorare come casaro e fino a quando il caseificio del carcere non ha chiuso per fallimento era in grado di guadagnarsi da vivere. Due anni fa infatti il laboratorio caseario del carcere ha chiuso lasciando senza stipendio i dipendenti che vi lavoravano. «Marco è seguito da una criminologa e da un educatore – conclude Ditroia – la sua storia ha suscitato diverso interesse da parte di televisioni e giornalisti, oltre che da sceneggiatori, ma nessun progetto al momento è definito». a.d.m.