Rimini, l'accoltellatore dell'autobus va al colloquio con un chiodo

Archivio

Strano ciondolo da legarsi al polso per andare a colloquio con il proprio avvocato difensore. A Duula Somane, l’accoltellatore somalo che l’11 settembre ferì cinque persone, tra cui un bambino, per le vie di Rimini, gli agenti della polizia penitenziaria di Rimini hanno sequestrato un chiodo, della lunghezza di un centimetro, anche se privo di punta. Lo aveva legato a una specie di bracciale artigianale ricavato probabilmente da un elastico per capelli. Si è presentato con quello al primo incontro con l’avvocato difensore Marilena Rivieccio, alla presenza di una interprete somala. Non appena un ispettore ha notato l’oggetto, è intervenuto per sequestrarlo. Il somalo non ha opposto resistenza, si è anzi sfilato dal polso il “braccialetto” e lo ha consegnato. «Come me lo sono procurato? Non ricordo». L’ipotesi è che abbia sfilato il chiodo da uno di quegli armadietti artigianali che i detenuti si fanno da sé. Dal momento del suo ingresso in carcere Somane è rimasto in isolamento prima in ossequio alla quarantena sanitaria e ora per sottrarlo alle eventuali ritorsioni di altri detenuti per avere aggredito un bambino. Il somalo, accusato tra l’altro di duplice tentato omicidio, non ha assunto atteggiamenti aggressivi. Forse per effetto delle terapie è apparso sufficientemente calmo, anche se i discorsi sono sempre gli stessi: deliranti e che tradiscono manie di persecuzione. “Avete trovato la donna senza mani che mi perseguita?” è stata la domanda più ricorrente. Racconta di essere arrivato in Romagna, proveniente dalla Svizzera e via Francia (in treno) senza spiegare per quale motivo fosse diretto proprio verso la riviera romagnola. Al momento dell’ingresso in carcere aveva dei franchi svizzeri, delle corone e svedesi e i pochi spiccioli che gli rimanevano degli euro distribuiti periodicamente ai richiedenti asilo. Racconta di avere vissuto dei lutti in Somalia e di avere soggiornato nei campi profughi in Libia, ma poi tutto si fa confuso. «Chiamavo sempre mia mamma», dice, ma non fornisce dettagli utili a rintracciarla e neanche a fare ritrovare il telefonino che sostiene di avere posseduto, ma non aveva con sé al momento della cattura. Il somalo, mai segnalato dalle polizie di mezza Europa dove aveva vagato prima di approdare in Italia, spiega di non ricordare niente dei fatti che gli vengono attribuiti. Intanto, in carcere, è attesa la visita dello psichiatra forense Renato Ariatti, consulente nominato dal pubblico ministero Davide Ercolani. È affidato a lui il compito di capire se il detenuto è capace di intendere e di volere e se può stare in giudizio, cioè in condizione di affrontare il processo. Il terzo quesito riguarda la pericolosità sociale, ma su quella non dovrebbero esserci dubbi: quel chiodo nascosto, se ce n’era bisogno, suona come una conferma. and.ros.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui