Rimini, infermiera Covid: "Paura sì, ma penso solo a salvare vite"

Rimini

RIMINI. «In Rianimazione può succedere di tutto. I pazienti sono molto instabili, il virus cambia molto velocemente e non risparmia nessuno». Camilla Panzieri, 32enne infermiera originaria di Fano, ha scelto volontariamente di prestare servizio nel reparto di Rianimazione Covid dell’Infermi. Spiega che «all’inizio erano quasi tutti anziani, adesso invece arrivano anche 50enni e 60enni». Addirittura anche molto più giovani. Del Covid-19, il “nemico invisibile” con cui Camila si trova tutti i giorni faccia a faccia dal 14 marzo, dice che è «un virus maledetto». «La paura c’è - ammette - e a volte con la mascherina sembra di soffocare. Ma quando siamo lì non pensiamo a nulla, se non a salvare le persone che lottano tra la vita e la morte».
Camilla, cosa l’ha spinta a proporsi come volontaria per la Rianimazione Covid?
«Lavoravo già da 5 anni come infermiera nella Rianimazione del Ceccarini di Riccione, e quando ho saputo che nella Terapia intensiva di Rimini erano un po’ in emergenza mi sono offerta volontaria per dare una mano. E’ una bella esperienza, ma è molto dura, soprattutto quando ti rendi conto di non riuscire a fare quello che vorresti, di non riuscire a fare abbastanza per le persone per le quali ti stai dando tanto da fare. E poi c’è la paura di essere contagiati. A volte, infatti, dopo tante ore che indossiamo la mascherina andiamo un po’ in affanno, e il pensiero di “averlo preso” ci viene. Poi, ci si riflette un attimo, e a mente fredda ci si rende conto che dopo sette ore di doppia mascherina e visiera, è normale che l’aria inizi a mancare».
A che pazienti si è trovata di fronte, una volta in reparto?
«La maggior parte sono sedati, perché sono sottoposti ad aiuto meccanico per respirare con il ventilatore, poi, in base agli esami e alla valutazione del medico si scala la sedazione e la ventilazione, per arrivare piano piano al risveglio. E’ un processo graduale, e il ricovero dura più o meno due settimane. I pazienti sono molto instabili, il decorso è molto soggettivo, varia in base all'età, alle patologie pregresse. Ci sono forme più aggressive e meno aggressive ed è un virus che vira molto velocemente. E’ maledetto, perché non sai come può evolversi, e la cosa peggiore è che non risparmia nessuno. Adesso iniziano ad arrivare anche i 50enni e 60enni».
Qual è l’aspetto peggiore della malattia?
«Senza dubbio l’isolamento. E io l’ho vissuto sia da infermiera che da figlia, perché anche mio babbo è stato ricoverato, per fortuna però non in rianimazione. E’ stata dura conciliare le due realtà, quella lavorativa e di figlia. Mi ha colpito vedere la paura nei suoi occhi e negli occhi di chi contrae il virus, perché appena arrivi in ospedale ti è subito chiaro che sei da solo. Gli unici contatti che puoi avere sono quelli con gli infermieri, che comunque sono tutti bardati, quindi è difficile anche comunicare. Per fortuna però che c’è la tecnologia: chi non è sedato può almeno restare in contatto con i parenti. E poi, ovviamente ci sono i decessi, che capitano, ed è sempre dura, perché hai la sensazione che tutto quello che hai fatto non è servito a nulla. Al contrario, quando si estuba un paziente è bellissimo, ti dà la carica di andare avanti. Per questo è importante la ricerca, testare nuovi farmaci e cure sperimentali. Ma è sicuramente molto importante prenderlo in tempo, è un virus nuovo non c’è un farmaco mirato e la cura richiede del tempo. Prima lo si “prende”, meglio è».
Cosa ha provato quando ha iniziato a prestare servizio?
«Una sensazione bella, anche se la situazione era, ovviamente, un po’ critica. Mi sono trovata in un ambiente completamente nuovo, con colleghi nuovi e in un contesto complesso e delicato. Ma allo stesso tempo ho trovato grande solidarietà da parte di tutti: medici, infermieri e operatori socio sanitari. Quando sono arrivata io erano già due settimane che loro lavoravano lì, ed erano già stanchi, ma nonostante tutto ho visto grande aiuto reciproco, anche nel processo della vestizione. Un’equipe meravigliosa in cui tutti lavorano per lo stesso obiettivo: salvare la gente. Si lavora a testa bassa e non ci si lamenta. Vietato fermarsi».
Qual è la vostra “armatura”?
«Dobbiamo essere completamente bardati. Abbiamo il doppio camice, i calzari, i doppi guanti, doppia mascherina e visiera e poi la cuffia. E se dobbiamo fare manovre particolarmente invasive, come una tracheotomia, dobbiamo indossare una tuta, cioè dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr) ancora più coprenti. Per indossare tutto, ci vogliono almeno 5 minuti, prima di entrare in reparto. Bisogna prestare un’attenzione scrupolosa anche al momento della svestizione, perché un solo gesto sbagliato può farti contrarre il virus».
Quanto dura il turno?
«Quello della mattina dalle 7 - 13, del pomeriggio dalle 13 alle 20 e dalle 20 alle 7 quello di notte, che sono 11 ore. Cerchiamo di non mangiare e di non bere, perché se devi andare in bagno devi toglierti tutto e stare attentissima. La mascherina lascia i segni e abbiamo le mani che si stanno squamando, a forza di lavarle e di indossare i guanti».
Cosa si porta a casa, quando stacca?
«Cerchi di non portarti niente. Quando timbri il cartellino cerchi di lasciare in ospedale quello che hai vissuto. Cerchi di distrarti, di sentire la famiglia e di riposare, perché la fatica e la stanchezza sono tante. Quando la situazione si sarà calmata e riprenderemo le nostre vite e i nostri posti di lavoro avremo da elaborare, avremo bisogno di un aiuto psicologico. Che in realtà serve sempre, perché abbiamo sempre a che fare con la morte, ogni giorno, anche prima del Covid. Ma il bilancio e le polemiche le faremo dopo, a emergenza passata».

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