Rimini. Uno bianca, intervista esclusiva a Pietro Costanza

Rimini

È uno dei due poliziotti, l’altro è Luciano Baglioni, che venticinque anni fa sgominarono la banda della Uno bianca. Eppure Pietro Costanza, 63 anni, ex sovrintendente capo, non partecipa alle celebrazioni ufficiali, non rilascia interviste, resta lontano dai riflettori. Quando, dopo aver messo fine alla sanguinaria storia criminale dei Savi, gli suggerirono di fare ricorso per ottenere una promozione rispose No, grazie: i premi non si chiedono. Appena ha potuto se n’è andato in pensione, mettendo la famiglia e la pesca in cima ai suoi interessi. Il suo segreto, in un mondo di fenomeni, è la normalità: sapeva rendere semplici, e risolvere, i casi più complicati.


Perché ritagliarsi il ruolo dell’antieroe in una storia così positiva, entrata nella storia del Paese?
«La verità è che mi fa male l’idea di riparlarne, provo un senso di nausea. Non ho mai accettato, né accetterò mai il fatto che gli assassini indossassero la mia stessa divisa, fossero dei poliziotti, uno dei quali lavorava a Rimini. Moralmente è una situazione che mi fa schifo, oggi come ieri. Ma il mio atteggiamento non è polemico e anzi sono contento che ci siano iniziative capaci di spazzare le illazioni e far conoscere ai giovani fatti così tragici perché non si ripetano. Non c’è nessun mistero dietro alla Uno bianca. Di marcio c’erano solo loro. Era nostro interesse vitale scoprire se c’erano delle coperture: saremmo state le prime vittime. Invece abbiamo scoperto tutto quello che c’era da scoprire. Su questa affermazione mi giocherei la mia stessa vita».
Ci sarà qualcosa di bello che si porta dentro di quell’indagine?
«Avere mantenuto fede alla promessa fatta al collega Antonio Mosca in punto di morte: quella di arrestare i suoi assassini. Non sarei mai andato in pensione se non li avessimo presi. E pensare che quando abbiamo catturato i Savi ancora non sapevamo fossero proprio loro i responsabili. Con Baglioni ci diciamo sempre: Qualcuno da lassù ci ha guidato».


“Attenti a quei due”: che ricorda del sodalizio con Baglioni, qual era il vostro metodo? Qualcuno ha contato che avete contribuito a catturare circa 1500 criminali
«Per trenta anni abbiamo condiviso tutto, quando cominciavamo un lavoro cercavamo di portarlo a termine. Non abbiamo mai lavorato per incastrare qualcuno, ma semmai per cercare di tenerlo fuori. Se alla fine, gira e rigira, quello restava dentro vuol dire che era la volta buona. I teoremi e i massimi sistemi non ci interessavano e infatti restavano fuori. In un’indagine devi fare cose semplice e partire dal basso. Non puoi permetterti di prendere l’ascensore: devi prendere le scale, solo così ti accorgi se un gradino è scheggiato o mancante. Prestare attenzione ai dettagli, imboccare la pista più logica: capire le motivazioni, i criminali non quasi mai intelligenti. Semplice, no? Inoltre, essenziale era il controllo del territorio. La presenza sul posto, ora per prima cosa si guardano i video della sorveglianza. Ci sceglievamo noi gli informatori, senza promettere niente in cambio e non ci lasciavamo scegliere: degli “infami” non ci siamo mai fidati. Sono state considerazioni semplici che ci hanno portato a intuire prima di altri che quelli della Uno bianca non erano legati alla mala, che erano della zona e addirittura che erano colleghi: chi altri si metterebbe a inseguire un automobilista, dopo un duplice omicidio, solo perché ti ha mandato affanculo all’incrocio?».
La migliore prova che non c’era nessuno dietro ai Savi è il fatto che dopo 25 anni sono ancora dietro le sbarre. Meritano dei benefici?
«Quando chiesi a Fabio Savi come aveva potuto uccidere tutte quelle persone, lui mi rispose: Una o cento che differenza fa?. Il problema è l’aver superato il limite. Uso il suo stesso argomento: una vita è insostituibile, penso a Mosca, a suoi figli, alla vedova. Sono contrario ai benefici per chiunque abbia ucciso anche una sola persona, e credo che i Savi debbano scontare fino in fondo, senza sconti, quello che prevede la legge. So che forse usciranno tra due o tre anni al massimo, ma non lo dico perché ho paura di loro, non ne ho mai avuta neppure venticinque anni fa».

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