Rimini. Baccalà, truffa da un milione e mezzo

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C’è da immaginarsi che quando il rappresentante legale dell’importante azienda norvegese presa di mira, leader nel settore dei prodotti ittici, ha scoperto di essere rimasto vittima di una truffa milionaria abbia assunto l’aspetto dello stoccafisso. Immobile, attonito e incapace di agire come il merluzzo conservato tramite essiccazione e chiamato anche baccalà, prodotto di punta dell’azienda commercializzato in tutta Europa. Ingannato da tre imprenditori campani che - presentando fideiussioni false - si sono fatti spedire una partita di baccalà per un milione e mezzo di euro e poi sono spariti dalla circolazione assieme al carico.

La vicenda risale a quattro anni fa e ha visto il coinvolgimento di un “broker” riccionese risultato estraneo ai fatti. Era stato lui stesso nell’agosto 2017 a denunciare a Rimini l’accaduto per conto della ditta scandinava.

Con l’accusa di truffa andranno a processo (prima udienza nel maggio 2022) i tre presunti responsabili del clamoroso “bidone”, identificati attraverso le indagini dei carabinieri romagnoli e di quelli campani (l’azienda estera si è costituita parte civile attraverso l’avvocato Stefano Caroli).

Si tratta di padre e figlio di settantaquattro e trentotto anni e di una donna di trentanove, tutti residenti nel Napoletano.

Nella veste di amministratori di diverse società specializzate nel commercio di prodotti ittici, stando al capo di imputazione, avrebbero carpito la fiducia del “broker” e della azienda norvegese attraverso la sigla, nel tempo, di una serie di contratti importanti, rispettati alla lettera e nei tempi stabiliti. Mesi di rapporti commerciali: ordini di acquisto con tanto di puntuale pagamento all’arrivo delle forniture dall’estero. Niente di più, secondo l’accusa, di un sottile stratagemma per guadagnarsi la fiducia del colosso straniero. A un certo punto, infatti, motivando il tutto con la prospettiva di un salto di qualità imprenditoriale, in pochissime settimane hanno accumulato debiti per un milione e mezzo di euro con i fornitori (allettati a loro volta dalla prospettiva di fare ottimi affari). I campani avevano giustificato i ritardi con la momentanea mancanza di liquidità, ma avevano soprattutto fornito garanzie che si sono rivelate false. Attraverso una fideiussione inesistente, apparentemente proveniente da una banca italiana, hanno indotto in errore la controparte, rassicurata sulla solvibilità e sulla solidità patrimoniale degli acquirenti. Un errore che è costato caro ai norvegesi. Per assumere la proverbiale rigida fissità del baccalà, serve un procedimento di sei mesi: al responsabile norvegese è bastato un attimo quando ha capito di essere stato ingannato.

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