Ravenna e le torri Hamon: qualche domanda sotto le macerie

Ravenna

In una città dove per spostare una fioriera di un bar servono mesi di carte bollate e pareri incrociati di Soprintendenza e uffici di ogni genere, ieri in tempi incredibilmente veloci (sia per Ravenna che per l’Italia intera) è andato in scena l’ultimo atto del mortificante teatrino che ha accompagnato l’abbattimento delle torri Hamon. Torri rese immortali, giusto 60 anni fa, dal genio di Antonioni nel suo capolavoro “Deserto Rosso” e simbolo, oltre che dell’archeologia industriale italiana, anche di una tappa fondamentale della storia sociale ed economica di Ravenna.

Certo non sono “proprio le piramidi”, direbbe qualcuno, ma nemmeno qualcosa da abbattere con la leggerezza di chi si trova di fronte a un gazebo pericolante. Anni e anni di iniziative e convegni sulla Darsena per generare la cosiddetta “partecipazione dal basso”, per poi vedere le gru arrivare a tempo di record grazie alla meno pubblicizzata ma più concreta “partecipazione dall’alto”. Quella di Eni e Autorità portuale.

Un’operazione che ha visto nella segretezza della preparazione e nella velocità dell’esecuzione un affronto alla città stessa. Certo - sia chiaro - non c’è nulla di illegittimo e tanto meno di illegale in un’operazione tra privati su un’opera senza vincoli, ma speriamo che almeno ci si renda conto che c’è eccome qualcosa di inopportuno e irrispettoso.

Ci sarebbe almeno piaciuto, ad esempio, sapere un paio di cose prima di vedere arrivare le gru.

Erano davvero così pericolanti e pericolose quelle torri?

Quanto sarebbe costato metterle in sicurezza? E chi ha fatto la stima dei costi?

La Soprintendenza - finora non pervenuta - aveva i margini per apporre un vincolo?

Era poi davvero impossibile pensare a una convivenza tra un parco fotovoltaico ( mica una riserva naturale) e due torri di archeologia industriale?

Non se ne poteva salvare almeno una? Magari dando tempo alle istituzioni di trovare sponsor per la messa in sicurezza?

Il teatrino lampo però ha tolto spazio e tempo al dibattito che comunque, come punto più alto, aveva registrato solo la frase poco felice del presidente di Ap: “Non sono mica le piramidi”. Frase che, tra l’altro, apre un pericoloso precedente, visto che di piramidi a Ravenna non ce ne sono.

Non è poi sfuggita ai ravennati nemmeno la posizione di sostanziale neutralità del Comune. Che da un lato ha informato i cittadini di quanto stava accadendo, ma dall’altro non è andato oltre al “ci dispiace”, fornendo inappuntabili argomentazioni amministrative a una questione che doveva e poteva essere politica.

Ma se non abbiamo salvato le torri Hamon, come potremo pensare che sia ancora possibile ipotizzare un dibattito partecipato credibile sul futuro della Darsena? Qualcosa intesa come volontà diffusa di lasciare un forte segno urbanistico e architettonico sulla Ravenna di domani? E pensare che, solo pochi anni fa, questa città sognava di diventare capitale europea della cultura. Mettendosi - almeno a parole - in scia ad esempi di riqualificazione urbanistica di altre città portuali o territori dal passato industriale come Liverpool, Bilbao o la Ruhr tedesca.

E invece siamo tristemente passati dalla scia alla S.c.i.a. Dove un “cadono calcinacci” è abbastanza per cancellare lo sky line di una città e offendere la sua storia. Roba che fa male al cuore e, direbbe qualcuno non più in voga, anche ai capelli.

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