Processo Radici, i motivi delle condanne: «Intimidazioni e omertà». Così le mafie ci aggredirono

Hanno usato la «forza intimidatrice» in maniera pervasiva, per creare una «condizione di assoggettamento e di omertà». E’ il comune denominatore che regna nel rileggere la storia di come la malavita, tra il 2018 e il 2020, si è insinuata nel tessuto imprenditoriale romagnolo, colonizzando il territorio a suon di pasticcerie, ristoranti, bar e hotel acquisiti da un giorno all’altro. Questo, per i giudici del tribunale collegiale di Ravenna, rappresenta il cuore del «metodo mafioso» riconosciuto ad alcuni dei 21 imputati nel processo “Radici”, la maxi inchiesta sulle infiltrazioni di Camorra e ‘Ndrangheta, nella Riviera. Le motivazioni della sentenza – depositate in questi giorni in 605 pagine – ricostruiscono nel dettaglio condotte, episodi e collegamenti in un quadro di minacce, violenze, pratiche opache e strumentalizzazioni sistematiche dei rapporti lavorativi, costato condanne per un totale di 98 anni.
Per il collegio – presieduto da Cecilia Calandra con i giudici a latere Federica Lipovscek e Cristiano Coiro – l’utilizzo del metodo mafioso si riscontra a prescindere dall’esistenza di una vera e propria associazione per delinquere e nonostante il numero delle vittime fosse tutto sommato limitato a una stretta cerchia di imprenditori. Scorrono gli esempi «ampiamente rappresentativi» delle parti offese coinvolte nel vortice di bancarotte, intestazioni fittizie, riciclaggio di denaro, estorsioni, lesioni, caporalato, minacce e violenze; questa la rassegna in sintesi dei capi d’accusa. Anche loro sono accomunate dalla medesima scelta: quella di non costituirsi parte civile, aspetto che - scrivono i magistrati - «non è privo di significato». Al loro posto c’erano i fallimenti: la società Dolce Idea, il Forno Imolese, danneggiati dalle manovre finanziarie e dalle intimidazioni e i comuni lambiti dai commerci torbidi, Cervia, Cesenatico, Imola, Bagnacavallo.
Era il 2019 quando un esercente cervese che pretendeva la restituzione dei macchinari da pasticceria affidati nel laboratorio di via Levico, nella Città del sale, finito nelle mani del 52enne Saverio Serra, si sentì rispondere: “Io piuttosto che ridarti indietro l’azienda te la brucio con la benzina”: questa una delle frasi riportate dalla vittima, successivamente raggiunta da uno schiaffo con l’ulteriore minaccia.
Ci sono poi i casi di sfruttamento in alcuni ristoranti di Cesenatico, come “All Fish” e “Il Chioschetto”, dove i dipendenti sarebbero stati costretti nel 2018 a orari di lavoro estenuanti (fino a 12 ore consecutive) senza riposi settimanali o ferie, sottopagati e vessati con pesanti pressioni psicologiche fra le quali, umiliazioni a sfondo sessuale e minacce di licenziamento. E qui si legge il nome di uno degli altri personaggi finiti a processo, Alessandro Di Maina, 52enne residente a Cesenatico. Fra le vittime chiamate a deporre nel corso del processo - aggiungono i giudici - è stato lampante il disagio del responsabile dell’ufficio tecnico comunale a distanza di ben 6 anni dai fatti, che l’ha portato a chiedere espressamente di non essere ripreso in aula dalle telecamere.
Ci sono poi testimoni che in fase di indagini si sono rifiutati di firmare verbali di sommarie informazioni. Certi imputati, d’altra parte, suscitavano timore al solo nominarli.
Ed eccoli i nomi tanto temuti. Faccendieri, teste di legno, uomini “a disposizione”. Le pene più alte sono state pronunciate nei confronti di Saverio Serra, originario di Vibo Valentia ma residente a Cervia, condannato a 13 anni e 3 mesi oltre a 12.050 euro di multa; con lui Francesco Patamia, ex candidato alla Camera con la lista Noi moderati, condannato a 11 anni e 2 mesi (9.200 euro di multa) e Rocco Patamia, 10 anni e 6 mesi (8.600 euro di multa), padre e figlio, ritenuti dall’accusa uomini “a disposizione” della cosca Piromalli. Poi Alessandro Di Maina, 6 anni e 8 mesi (4.000 euro). Il collegio ha anche disposto a loro carico l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e legale per la durata della pena. Le altre condanne vanno dai 2 ai 4 anni e riguardano Antonino Carnovale, Giovanni Battista Moschella, Massimo Antoniazzi, Domenico Arena, Marcello Bagalà, Claudia Bianchi, Giorgio Giuseppe Caglio, Gregorio Ciccarello, Giovanni Forgione, Carmelo Forgione, Annunziata Gramendola, Giuseppe Maiolo, Eleonora Piperno, Pietro Piperno, Patrizia Russo, Michele Scrugli e Leoluca Serra.
Il collegio non li ha tenuti tuttavia responsabili dell’ “aggravante soggettiva”, quella che li accusava di avere agevolato l’associazione mafiosa, e di conseguenza di avere alimentato il business delle cosche Piromalli della piana di Gioia Tauro e delle famiglie Piscopisani, Lo Bianco, Bonavota e Mancuso. E’ vero - si legge nella sentenza - che «sono emersi chiari e univoci collegamenti» degli imputati «con alcuni clan di ‘Ndrangheta» e che «sono stati registrati diversi flussi di denaro sull’asse Emilia Romagna-Calabria»; tuttavia - concludono - «non è sufficiente a dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che i flussi finanziari abbiano alimentato quegli specifici clan».