«Non mangiare di questo pane», il caso del Forno Imolese a Ravenna nel processo sugli intrecci tra ‘ndrangheta e politica

Ravenna

«Non mangiare di questo pane», e il pane sarebbe anche quello di Forno Imolese srl, l’attività con sede legale a Bagnacavallo e laboratori a Imola che ieri è stata al centro della nuova udienza del processo “Radici” sulle presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna. La frase, invece, fa capolino tra le intercettazioni ambientali effettuate durante un incontro, l’1 febbraio 2020 in un bar, tra Rocco e Francesco Patamia (padre e figlio) e Saverio Serra, tutti e tre imputati: un appuntamento durante il quale si era parlato della situazione del Forno, con i Patamia a cercare di convicere Serra a lasciar perdere alcune questioni imprenditoriali in terra romagnola, ma anche delle ambizioni politiche di Francesco, ormai lanciato in una scalata politica all’interno di ambienti di centrodestra. Pochi mesi prima, il 31 ottobre 2019, era stato Serra stesso a subentrare a Patamia figlio nel ruolo che l’accusa definisce di «amministratore occulto e di fatto» di Forno Imolese: uno degli ultimi atti - sostiene il pubblico ministero Marco Forte, coordinatore della maxi inchiesta - di una girandola di prestanome collegati a vario titolo a cosche ‘ndranghetiste che era iniziata nel 2018. L’attività con sede a Bagnacavallo (sia il Comune della Bassa Romagna che quello di Imola si sono costituiti parte civile nel processo) avrebbe rappresentato uno dei tanti «schermi societari» usati dall’organizzazione criminale calabrese con l’obiettivo di occultare traffici illeciti: aziende in crisi da rilevare e spolpare attraverso dinamiche che hanno portato a contestare ai 34 imputati una serie di reati quali l’autoriciclaggio, la bancarotta distrattiva, l’estorsione, il trasferimento fraudolento di valori, coronati a loro volta dall’accusa di associazione di stampo mafioso, al cui vertice si sarebbero trovati Francesco e Rocco Patamia considerati dall’accusa «a disposizione o comunque vicini alla cosca dei Piromalli di Gioia Tauro quali soggetti incensurati destinati in modo riservato a gestire gli investimenti del clan prevalentemente nel nord Italia». In particolare, per la realtà divisa tra Imola e Bagnacavallo viene contestata una distrazione patrimoniale da 835.614 euro.

La genesi dei passaggi di proprietà di Forno Imolese è stata ripercorsa ieri dall’imprenditore faentino 60enne che decise, con i suoi due figli, di rilevare un ramo d’azienda del fallito Panificio Imolese. Un investimento che si rivelò una scommessa difficile da vincere, a cominciare dalla nomina quale amministratore di una terza figura, consigliata da un conoscente, rivelatasi presto «totalmente incapace di svolgere il mestiere». Nel giro di qualche mese sarebbero entrate in gioco, con modalità definite «anomale», le prime “teste di ponte”, pronte a rilevare - in pratica gratuitamente - l’azienda che, con ricavi pari ai costi, non riusciva a decollare: rimosso da un giorno all’altro l’amministratore - che si sarebbe autoliquidato 10mila euro irritando i nuovi acquirenti - durante una riunione in cui volarono schiaffi e sedie, il 17 aprile 2018 Pietro Piperno (considerato vicino alla ‘ndrina Fiarè) e suo nipote Antonino Carnovale affidano Forno Imolese alla figlia del primo, Eleonora Piperno. Tuttavia, ha dichiarato ieri la curatrice fallimentare di Panificio Imolese chiamata a testimoniare in aula, il referente sarebbe sempre rimasto Carnovale, almeno fino a che, con una telefonata nel luglio 2019, Francesco Patamia le avrebbe annunciato che il nuovo amministratore era diventato un certo Giuseppe Vivona. «Per sei mesi - ha detto la curatrice - hanno verosimilmente usato l’azienda senza pagare le cifre che erano state pattuite con i precedenti referenti».

Tra i testi sentiti ieri, anche un maresciallo del Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata della Guardia di Finanza che si è occupato delle indagini: dalla sua deposizione è emersa anche quella che il pubblico ministero Forte ha definito la «parte politica» del processo. Un binario parallelo che, stando alle intercettazioni riportate dal militare, vedrebbe ancora una volta Francesco Patamia al centro di una rete con diversi contatti nel mondo di centrodestra, ad esempio con l’ex deputato di Forza Italia Massimo Romagnoli. Anche Patamia aveva fondato un movimento politico, il Partito liberale europeo. Intrecci che lo avrebbero portato a relazionarsi anche con personaggi quali Giorgia Meloni e Antonio Tajani, come emerge anche da una foto pubblicata su Twitter. Aspetti su cui il pm Forte ha sentito la necessità di «allargare la visuale» per «capire come si sia trovato un signor nessuno, dopo essere salito in Lombardia, ad andare a braccetto con l’attuale ministro degli Esteri e la presidente del Consiglio».

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