Ristorante nuovo “pagato” con assegni scoperti: cinesi a processo a Ravenna

RAVENNA. Da un giorno all’altro hanno impacchettato tutte le loro cose, hanno chiuso il ristorante e hanno lasciato gli artigiani con un pugno di mosche in mano e un blocco di assegni scoperti. È così che i responsabili del ristorante Wok Up di via Cavina a Ravenna, tre cinesi e un italiano, sono finiti a processo per truffa nei confronti di quella piccola azienda artigiana che gli aveva fatto i lavori tra il 2011 e il 2013. Sul banco dei testimoni, ieri mattina, è salito proprio il titolare di quella ditta di costruzioni, che tra le lacrime ha dovuto dichiarare come, per colpa di quella commessa mai pagata, sia stato costretto a mettere in liquidazione la sua azienda. «La banca, fidandosi, mi aveva anticipato le somme che avrei dovuto ricevere - ha raccontato -, perché forte di un contratto firmato che prevedeva il rientro di quella cifra». Oggi, considerando che i cinesi non hanno pagato e due di loro hanno persino fatto perdere le loro tracce (tanto che il giudice in apertura di udienza ha dovuto stralciare le loro posizioni per irreperibilità), l’uomo si trova costretto a lavorare, nonostante sia in pensione, per poter far fronte a tutti i debiti conseguenti alla chiusura della ditta.

Lavori in grande

Le prima avvisaglie che, forse, quei soldi l’artigiano non li avrebbe mai più rivisti sono iniziate già nel 2013, alla fine dei lavori di ristrutturazione di quel ristorante da circa ottocento metri quadrati. I titolari della “Wok food test srl” di Padova, ovvero quei tre cinesi che volevano aprire il ristorante a Ravenna, avevano firmato un contratto per una spesa complessiva da oltre 170mila euro più iva. Con tanto di garanzia firmata dalla società proprietaria dei muri. Anche questa, a detta dell’artigiano, mai adempiuta. A inizio lavori la Wok food avrebbe versato una prima tranche da 50mila euro a mezzo bonifico, ma quello rimase il primo e unico pagamento eseguito. Negli accordi, infatti, il resto della somma sarebbe dovuto essere versato con assegni da circa 10mila euro, fino a estinzione del debito. «Quando mi consegnarono il primo assegno - ha spiegato sempre l’artigiano - dopo pochi giorni mi chiamarono dicendomi però di non incassarlo, perché al momento non c’erano i soldi. Così ho aspettato». A un certo punto, però, il malcapitato ha bisogno di iniziare a ricevere le somme e porta in banca quegli assegni, che tuttavia finiscono tutti in protesto perché risultati scoperti. Con il ristorante che d’improvviso viene chiuso, la proprietà insolvente, i cinesi irreperibili e un debito da quasi 150mila euro sulle spalle, a quel punto l’artigiano prende l’unica strada che gli sembra percorribile: ossia quella di una denuncia formale alle forze dell’ordine. Peccato che per lui ormai fosse troppo tardi e la sua azienda non è comunque riuscito a salvarla. Rigettano invece ogni accusa gli imprenditori cinesi e l’italiano coinvolto: «Nessuna truffa - spiega l’avvocato Giuseppe Pavan del foro di Padova - Si è trattato purtroppo di un progetto economico finito male».

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