Lugo. «Alla guida dell’auto non c’era la vittima». L’amica condannata dopo 10 anni

Ravenna

Non c’era Giuseppe Montemurro al volante della Citroën C3 che la drammatica notte tra il 2 e il 3 ottobre 2015 volò fuori strada lungo l’A14 bis, nel tremendo incidente che gli costò la vita. A differenza di quanto inizialmente accertato, c’era invece la ragazza che quella sera era uscita con lui ed altri amici in discoteca.

A quasi dieci anni dal tragico incidente in cui morì il 25enne originario di Matera e padre di un bambino che all’epoca aveva un anno, il giudice monocratico Natalia Finzi ha pronunciato ieri la sentenza: un anno e otto mesi di reclusione per omicidio stradale a carico dell’imputata, l’amica (oggi 36enne, originaria di Benevento), che si trovava in auto con lui, seduta - secondo la sentenza che smentisce la sua versione - al posto di guida.

La Procura, rappresentata dal vice procuratore onorario Simona Bandini, aveva chiesto la condanna a tre anni. La notte dell’incidente l’auto con i tre ragazzi a bordo uscì di strada e cappottò dopo urti violentissimi, causando la morte immediata di Montemurro. Allora si pensò che la proprietaria del veicolo fosse seduta al lato passeggero. Il caso tuttavia fu riaperto nel maggio 2020 dopo la querela del fratello della vittima che sollevava dubbi sulla ricostruzione.

Perplessità poi confermate grazie alla perizia cinematica affidata all’ingegner Francesco Rendine e alla perizia medico-legale della dottoressa Donatella Fedeli; entrambe hanno ritenuto la dinamica e le lesioni “altamente compatibili” con la presenza della ragazza al volante.

Nel corso del processo, i testimoni avevano ricostruito la serata: il ragazzo sui sedili posteriori ricordava solo di aver dormito parte del tragitto e di aver sentito le urla della ragazza dopo il cappottamento. Le accuse di lesioni stradali per le ferite da lui riportate, ieri sono state dichiarate prescritte.

La vittima, stando alla nuova ricostruzione, non indossava le cinture, circostanza probabilmente rivelatasi fatale. Ma per l’accusa la responsabilità ricadrebbe comunque sulla conducente (tutelata dall’avvocato Cinzia Montanari), «alla quale - parole del vpo - è contestata una condotta negligente e imprudente per non avere osservato che i trasportati le avessero indossate correttamente». Si chiude così - pur in primo grado - un doloroso capitolo durato 10 anni per la famiglia di Montemurro, ieri presente in aula e ancora provata da una ferita difficile da rimarginare.

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