Ci sono persone che cambiano il corso della storia. Una di queste, nel suo ambito, è sicuramente Fabio Alberto Roversi Monaco, rettore dell’Università di Bologna dal 1985 al 2000. In quegli anni non solo seppe rilanciare il ruolo di quella che viene riconosciuta come la più antica università del mondo occidentale ma diede vita al progetto di decentramento che consente ancora oggi alla Romagna di ospitare quattro sedi universitarie con migliaia di studenti sparsi fra Forlì, Cesena, Ravenna e Rimini. Sotto la guida di Roversi Monaco (che era stato docente di diritto) l’Alma Mater ha visto sfilare capi di stato, leader religiosi e intellettuali di fama mondiale: Giovanni Paolo II, Madre Teresa di Calcutta, il principe Carlo (quando non era ancora re), Alexander Dubcek, Raul Ricardo Alfonsin, Andrej Sacharov, Norberto Bobbio, Mario Soares, Francois Mitterand, il Dalai Lama e tanti altri ancora... A raccontare quell’epoca e non solo ci ha pensato Luciano Nigro (riminese di origine e bolognese di adozione, giornalista e docente al master di giornalismo dell’Unibo) nel libro “Fabio il Magnifico, Roversi Monaco, il rettore che ha segnato un’epoca”, Saggi Vallecchi, uscito poche settimane fa. Domani, alle 17, alla Biblioteca Classense di Ravenna, sala Dantesca, ci sarà la presentazione romagnola in un incontro pubblico che vede, tra gli altri, il sindaco Alessandro Barattoni e il presidente dell’Abi Antonio Patuelli.
Nigro, senza Roversi Monaco ci sarebbe stata l’Università in Romagna?
«No, senza Roversi Monaco l’università in Romagna non si sarebbe fatta. è stato il motore di un’operazione che è stata un unicum in Italia perché di decentramenti così grandi non ne sono stati fatti. Un’operazione che ha coinvolto 4 città poi diventati campus: Ravenna, Forlì, Rimini, Cesena. Un’operazione che ha dato vita a realtà di tutto rispetto con studenti internazionali e punte di eccellenza, con poli di attrazione che in qualche caso hanno anche rivitalizzato le città, in particolare penso a Forlì e Cesena».
Perché si decise al decentramento?
«Intanto c’erano spinte autonomiste della serie Romagna regione autonoma e anche per fare un nuovo ateneo in Romagna. E poi l’università di Bologna era alle prese con gli effetti della crescita dell’istruzione di massa. Tanti iscritti, pochi spazi e quindi molte disfunzioni. L’idea di avere una presenza sul territorio romagnolo cominciò a passare anche all’università. Quindi Roversi mise insieme la spinta legittima dei romagnoli con l’esigenza dell’università: decentrando poteva aumentare gli spazi, sviluppare nuovi spazi e nuove relazioni. Si unirono le due esigenze».
Anche il contesto ha dato un aiuto in tal senso...
«Sì, il quadro normativo era cambiato e arrivarono risorse grazie alle politiche del ministro Antonio Ruberti. Ma Roversi le trovò anche coinvolgendo le istituzioni locali (dalle banche alle camere di commercio) e altri soggetti. Nel suo periodo l’università fece investimenti per 1.200 miliardi di lire. Si rese protagonista anche di una scelta impopolare: quella di aumentare le tasse universitarie. Ma con questi soldi si passò dalle lezioni in mille nei cinema a sale moderne e funzionali realizzate attraverso la sistemazione di vecchi edifici. Nel suo periodo gli spazi triplicarono».
Quale ruolo gioca la massoneria nella carriera e nelle scelte di Roversi Monaco?
«Certo, naturalmente, era un massone. Era stato il venerabile della Loggia Zamboni-De Rolandis, nella quale c’erano soprattutto docenti di diritto e di medicina. Quando divenne rettore ci fu un’inchiesta sulla massoneria a Bologna che in qualche modo mirava a colpirlo e a indebolirlo (in fondo erano gli anni della P2 di Licio Gelli...). La cosa fu per lui pesante ma tutto finì con un’archiviazione e lui stesso disse che appena nominato rettore era “entrato in sonno”, si era cioè sospeso dalla loggia. Nel libro c’è un intero capitolo su queste vicende».
Divenne potente perché massone?
«Lui dice di no e sostiene che che l’essere massone gli ha portato anche complicazioni. Gli fu anche chiesto da Corona di diventare gran maestro del Grande Oriente ma rifiutò. La verità è che divenne potente grazie a come gestì il nono centenario dell’università più antica del mondo. Re Juan Carlos, il principe Carlo, Mitterand, il Papa, il Dalai Lama, madre Tersa di Calcutta il simbolo della Primavera di Praga Dubcek furono tutti personaggi che passarono da Bologna attraverso lauree ad honorem o altre iniziative. Ma riuscì anche a convocare a Bologna 430 rettori da tutto il mondo».
Per fare cosa?
«Vennero a firmare la Magna Charta delle università dove si sancisce il principio che le università sono autonome da ogni potere. Oggi sono mille quelle che hanno aderito. Forte di tutti questi progetti è riuscito a trovare le risorse e a gestirle in maniera manageriale... anche troppo a detta di qualcuno. Molti lo hanno accusato di essere un accentratore, un uomo solo al comando. Ma quello del rettore è un potere monocratico e lui l’ha sfruttato in pieno».
Chi erano i suoi nemici?
«Ebbe degli scontri famosi, per esempio con il sindaco di Bologna Renzo Imbeni e anche con Pierluigi Bersani quando era presidente della Regione. Ma Roversi tolse anche dagli impicci gli ex comunisti quando comprò a Bologna la sede di via Barberia o il Caab (il centro agroalimentare di Bologna) aiutando le cassi sofferenti del partito. è sempre stato amato dai non comunisti ma alle elezioni lo votavano anche tanti comunisti».
Nel libro si legge del rifiuto di Federico Fellini alla laurea ad honorem e della sua lettera al rettore in cui quasi si scusava. C’era dell’altro?
«Quello era l’anno in cui prese l’Oscar alla carriera. Tutti lo volevano e lo cercavano. Troppe cerimonie non facevano per lui, immagino potesse essere stanco. Questa è l’idea che mi sono fatto, anche alla luce di un lungo incontro che ebbi con lui a Ferrara durante la sua convalescenza prima del peggioramento che lo portò poi alla morte. Fellini fu l’unico a rifiutare la laurea ad honorem, ma il suo non era un gesto polemico, tanto che per scusarsi invitò il rettore al Grand Hotel.
Chi erano in Romagna i punti di riferimento di Roversi Monaco?
«A Forlì c’era il senatore democristiano Leonardo Melandri che era stato vicinissimo ad Aldo Moro e che aveva creato Serinar, la società per l’università a Forlì-Cesena. A Ravenna Antonio Patuelli, attuale presidente dell’Abi. A Rimini c’erano l’avvocato Luciano Manzi e Luciano Chicchi, che conobbe anche alla Fiera di Bologna. Con Melandri diede vita a Bertinoro al Museo Interreligioso nella Rocca vescovile. Ma con la Romagna i rapporti furono tantissimi. Fu lui per esempio a ripiantare l’albero di Francesca, il cipresso di Polenta di Bertinoro legato alla leggenda di Paolo e Francesca narrata da Dante. Prima di lui nel 1898, dopo la distruzione provocata da un fulmine, l’albero era stato ripiantato da Giosuè Carducci».
© RIPRODUZIONE RISERVATA