Un ragazzino di 14 anni tenta di uccidere i genitori a Ravenna, mentre alcuni adolescenti a Forlì si accoltellano fuori dalla scuola. Non sono episodi di una serie tv del momento, ma la realtà. Episodi che inquietano e che fanno paura perché il disagio giovanile continua a restare un grande punto interrogativo per genitori, insegnanti e per i ragazzi stessi.
La psicologa riminese Katuscia Giordano, vicepresidente dell’Ordine degli psicologi dell’Emiilia Romagna, interviene sul tema, senza entrare nel dettaglio dei due casi specifici, provando a dare una spiegazione. «Entrambi gli episodi descrivono situazioni in cui non si è percepito un disagio prima e questo ci parla della necessità di strutturare degli interventi per intercettarlo - afferma Giordano - . Sia con il dialogo, sia cercando di creare un’intelligenza emotiva che consenta ai ragazzi di stare dentro alle proprie emozioni e ai propri pensieri. Gli strumenti per farlo ci sono. L’intervento degli psicologi scolastici o all’interno di progetti didattici sono volti a poter portare una serie di strumenti alle giovani generazioni, andando prima a supportare le famiglie da quando i figli vanno al nido e alle materne. Prima bisogna cercare di rafforzare le competenze genitoriali - spiega la psicologa - visto che è un ruolo che svolge una funzione fondamentale nella crescita e nello sviluppo dei figli, poi bisogna aiutare i bambini e gli adolescenti a poter stare nelle loro emozioni e a capire come poter agire prima di arrivare a uno stato di rabbia che non si riesce più a fermare». Per aiutarli occorre capire da dove nasce il loro disagio e vanno accompagnati in un percorso che li porti alla gestione delle emozioni.
«Questi casi di cronaca ci fanno pensare che il fenomeno sia sempre più frequente, ma non è detto che, guardando le statistiche, effettivamente sia così - evidenzia Giordano - . Le spinte aggressive ci sono sempre state bisogna capire come veicolarle. è importante lasciare spazio ai giovani, creare momenti di scambio intergenerazionale, ascoltarli. Comprendere in un modo non giudicante, perché si possano trovare situazioni migliori. I giovani non sono solo le baby gang, sono tanto altro di cui non si parla. C’è anche tanto attivismo e sono molte le azioni positive, non vanno perse di vista. C’è una complessità maggiore di quella evidenziata nei singoli episodi. Se vogliamo fare prevenzione e investire negli esseri umani, dobbiamo investire nella psicologia per avere meno conflitto sociale e meno accessi in pronto soccorso. Questo dimostrano i numeri laddove vengono effettuati percorsi mirati».
Per accompagnare i giovani alla gestione delle loro emozioni e alla creazione di una intelligenza emotiva serve una comunità educante formata da diversi attori, che agisca sul fronte della prevenzione.
«In certi casi può esserci una sofferenza psicologica di altro tipo come una patologia o una devianza - spiega ancora - c’è la necessità di capire come la rabbia possa essere gestita in maniera diversa a livello di relazioni e nello stare in un sistema (famiglia, scuola, società). C’è bisogno di prevenzione in modo da non arrivare a quel livello di emergenza, una fase in cui diamo ai ragazzi competenze relazionali per poter gestire emozioni e sviluppare empatia con l’altro e quindi capire le conseguenze delle proprie azioni. Per fare questo serve un potenziamento di competenze di tutti gli attori coinvolti, insegnanti e genitori in primis. Quando si verificano atti di bullismo a scuola bisogna intervenire tramite la collaborazione di docenti, psicologi, genitori e coinvolgere anche il gruppo classe, così possiamo essere protagonisti attivi che possano disinnescare eventuali difficoltà».
Talvolta ai ragazzi mancano anche modelli positivi a cui ispirarsi. «Chiediamoci cosa stiamo offrendo noi adulti alle nuove generazioni: stiamo restituendo loro un mondo attraversato da conflitti, segnato da pandemie e crisi climatiche – conclude Katuscia Giordano – sono giovani che spesso non hanno spazi di aggregazione e, di conseguenza, faticano ad allenare le proprie competenze relazionali e a socializzare. Prima di giudicare chiediamoci cosa gli stiamo dando e offrendo per cercare di prevenire. Quello di cui c’è bisogno è potenziare i servizi psicologici di base e garantire a tutti un sistema di supporto adeguato».