Il cold case di Alfonsine: "I rapitori sapevano delle indagini"

RAVENNA. Era tutto pronto per cogliere gli estorsori sul fatto. La cabina telefonica di Lido delle Nazioni dalla quale erano partite le chiamate minatorie chiedendo il riscatto di 300 milioni di lire per liberare Pier Paolo Minguzzi era stata individuata. Era la sera del 30 aprile 1987; il 21enne di Alfonsine, studente universitario di agraria in quel periodo carabiniere di leva a Bosco Mesola (nel Ferrarese), era stato rapito ormai da una decina di giorni. Quella sera, come preannunciato, i familiari del ragazzo avrebbero dovuto ricevere un’altra telefonata. Tuttavia, la tanto attesa chiamata non arrivò mai, e l’appostamento dei carabinieri alla cabina telefonica andò a vuoto.

Il giorno seguente - era il Primo maggio di 32 anni fa - il corpo di Minguzzi riaffiorò dal Po di Volano, dov’era stato gettato legato con il metodo del cosiddetto “incaprettamento” con una corda attorno al collo assicurata a una grata di ferro da 16 chili. I rapitori, secondo l’accusa, in qualche modo avano saputo di quel servizio organizzato per coglierli sul fatto. E gli atti del fascicolo riaperto dal procuratore capo Alessandro Mancini e dal pm Marilù Gattelli provano a spiegare in che modo: due dei tre membri della banda, all’epoca carabinieri in servizio ad Alfonsine, potevano essere venuti a conoscenza dello sviluppo delle indagini dai colleghi di Ravenna, che in qui giorni si appoggiavano spesso alla locale Stazione.

È questo un altro risvolto inedito dell’indagine che individua come responsabili del sequestro di persona e dell’omicidio del 21enne i due ex militari Orazio Tasca (54enne di Gela ma residente a Pavia) e Angelo Del Dotto (56enne di Ascoli Piceno) oltre all’idraulico del paese, il 63enne Alfredo Tarroni. A tutti sono stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari, un passo che condurrà alla richiesta di rinvio a giudizio per sequestro di persona finalizzato all’estorsione, omicidio e occultamento di cadavere.

I sospetti dell’epoca
Già all’epoca dei fatti i sospetti si erano indirizzati verso Tasca e Del Dotto. L’elenco delle coincidenze avvenute prima e dopo l’omicidio di Minguzzi erano state rilevate dall’allora capitano della Stazione di Alfonsine, sentito a ridosso dell’altro fatto di sangue. In particolare l’estorsione “gemella” alla famiglia Contarini, avvenuta appena due mesi dopo, culminata con la sparatoria costata la vita all’appuntato Sebastiano Vetrano (in occasione dell’appostamento organizzato alla consegna dei soldi) e con l’arresto della banda.

Il tentativo di depistaggio
È sulla voce del telefonista che oggi, grazie alle possibilità offerte dai moderni mezzi d’indagine, si aggiungono nuovi elementi indiziari. La perizia disposta dalla Procura sui file audio delle chiamate ricevute dalle due famiglie ha attestato con una probabilità altissima che fu Tasca (reo confesso delle telefonate ai Contarini) a parlare al telefono ai Minguzzi. Fu lui sempre secondo la Procura a fare confusione con i cognomi durante la prima delle due estorsioni: …pronto parlo con Contarino?…parlo con Contarini?… pronto Menguzzi?. La sua voce è stata inoltre associata anche a quella della telefonata anonima che il 12 maggio 1987 a mezzanotte chiamò la questura di Ravenna dicendo che il mandante del rapimento era il fratello della vittima, che per crearsi un alibi in quel periodo era andato in Spagna. Per gli inquirenti l’intento era di depistare le indagini, evitando di essere riconosciuto da qualche collega dell’Arma. Magari da uno di quegli stessi carabinieri che nel frattempo stavano indagando sul caso e che da quell’ultimo appostamento “bruciato” non avevano più avuto notizie dagli estorsori.

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