RAVENNA. «Da tre anni la mia vita si è fermata». Tutta colpa di un contraccettivo sottocutaneo, che sarebbe dovuto rimanere nel braccio, invece è migrato fino al polmone provocando un mix di effetti collaterali che non danno tregua a una ragazza, ora 26enne, costretta a convivere con l’ansia provocata da un oggetto estraneo libero di muoversi nel proprio corpo. La sua denuncia ha portato a processo un ginecologo e l’infermiera che nel 2017 impiantarono l’anticoncezionale alla ragazza nell’ambulatorio della clinica Domus Nova, difesi dagli avvocati Giovanni Scudellari e Claudio Cardia. Ieri la giovane è stata sentita nel corso del processo per lesioni colpose, davanti al giudice Cosimo Pedullà, ripercorrendo la vicenda dagli inizi, fino alla scoperta choc fatta nella primavera del 2020.
L’intervento nel braccio
Al centro dell’inchiesta condotta all’epoca della denuncia dalla squadra Mobile, c’è il Nexoplanon, un anticoncezionale sotto forma di un piccolo bastoncino di 4 centimetri impiantato con un piccolo intervento nel braccio. «Lo misi per la prima volta ancora minorenne, nel 2014. Non avendo patito alcun problema, nel 2017 andai a toglierlo per metterne uno nuovo». E’ qui che si inserisce l’accusa, rappresentata dal sostituto procuratore Monica Gargiulo. Secondo le contestazioni, il dottore non avrebbe fornito ulteriori delucidazioni riguardo le possibili conseguenze dell’impianto. Il giorno dell’operazione, ha ricordato ieri la ragazza – costituitasi parte civile con l’avvocato Luca Donelli – «ricevette una telefonata e uscì dall’ambulatorio per poi lasciar praticare l’intervento a un’infermiera. Sentii più male della volta precedente, ma pensai fosse normale».
I primi sintomi
Due anni più tardi i sintomi inaspettati si sono moltiplicati. «Avevo grossi sbalzi d’umore, sudorazione acre tipo quella maschile, acne, perdite intime e abbondante riduzione del seno. Andai dalla ginecologa decisa a rimuovere il contraccettivo, ma quando mi tastò il braccio mi disse che non lo trovava più». Inizia così il calvario. «Andai alla Domus Nova, mi fecero raggi in tutto il corpo, poi la tac, prima senza, poi con contrasto». Da qui il referto: il “bastoncino” era finito all’interno dell’arteria del polmone destro. Preoccupata, la ragazza decide di affidarsi all’ospedale Sant’Orsola di Bologna, dove i medici insistono per il ricovero immediato. Si confrontano chirurghi, specialisti, ancora tac: «Mi dissero che avevo rischiato tantissimo, mi guardavano come se fosse qualcosa che non avevano mai visto prima». E in effetti la situazione si fa inquietante quando le dicono che «non potevano operarmi, se non con un intervento di microchirurgia, e in caso estremo con la rimozione parziale del polmone».
Il calvario oggi
A tre anni di distanza il contraccettivo è ancora lì, «la capsula si è attaccata alla parete dell’arteria», e anche se l’effetto si esaurisce in 5 anni, «continuo a avere sintomi», continua la ragazza. «Da tre anni ho difficoltà a lavorare, ad avere una vita sessuale, non sono mai tranquilla, non dormo, la mattina sono inquieta, percepisco che c’è qualcosa in me che non va». Una condizione che la porta «ogni sei mesi a effettuare una tac con contrasto» per monitorare la situazione, e scongiurare rischi come trombosi o ulteriori migrazioni dell’oggetto. Senza contare, ha proseguito ieri in udienza, le conseguenze psicologiche per le quali, pur sentendo l’esigenza di un supporto, fatica a trovare una via d’uscita, perché, «meno parlo di quel che sto vivendo, più mi sento normale».