RAVENNA – Durante le operazioni di pulizia della postazione di lavoro rimase incastrata nel nastro trasportatore, rimettendoci la mano. Quasi sei anni dopo l’infortunio avvenuto nell’ottobre del 2017, la vittima, una donna residente nel Ravennate, ormai ex dipendente dell’Italfrutta, è stata citata in tribunale per raccontare l’esperienza di quel trauma, le cui conseguenze si ripercuotono tutt’oggi, fra interventi chirurgici e difficoltà a trovare un nuovo impiego. Un passaggio necessario nell’ambito del procedimento penale che vede imputato l’allora datore di lavoro, responsabile dell’azienda di Camerlona, accusato di lesioni colpose. Un’udienza fiume quella davanti al giudice Tommaso Paone, durante la quale la donna, ora 53enne, ha ricordato anche la delusione provata a ridosso di fatti, quando le sarebbe «stata negata l’ambulanza». E durante il tragitto in auto verso il pronto soccorso, uno dei responsabili che la stava accompagnando, pur cercando di confortarla, si sarebbe «raccomandato che non dicessi che il macchinario mi aveva preso il braccio, perché non era a norma».
L’incidente si era verificato di prima mattina, un’ora dopo l’inizio del turno. La dipendente, addetta al controllo dei barattoli di macedonia lungo il nastro trasportatore che attraversa lo stabilimento, aveva approfittato di un momento di quiete per pulire con una pompa la postazione. Il grembiule che aveva indosso fu catturato dal nastro trasportatore in funzione, trascinandola con tutta la mano verso gli ingranaggi. «Urlai, ma non c’era nessuno. D’istinto tirai e sentii la mano staccarsi dal polso. Se non avessi preventivamente abbassato il volume (la velocità, ndr) della macchina, mi avrebbe tranciato un braccio». Drammatiche le conseguenze: un infortunio di oltre due anni e mezzo, ha spiegato ieri la donna rispondendo alle domande del sostituto procuratore Marilù Gattelli, «e tutt’ora mi devo sottoporre a interventi al policlinico di Modena. Mi è cambiata la vita».
Durante le indagini l’operaia è stata sentita anche dall’Inail. Proprio l’ente ha sporto la denuncia che ha dato il via al processo, nonostante all’inizio la donna fosse restia a mettersi contro «chi mi ha dato da mangiare». Anzi, ha puntualizzato ieri delusa, «pensavo che mi avrebbero ripreso a lavorare, invece nessuno si è più fatto vivo. Solo oggi vedo il mio datore di lavoro dopo quel fatto». Da parte dell’azienda (l’imputato è tutelato dall’avvocato Domenico Benelli), è arrivato nei mesi scorsi un risarcimento di 30mila euro, ritenuto tuttavia dalla parte offesa non sufficiente a coprire il danno subito. Anche perché, stando a quanto riferito dall’ex lavoratrice, pare che il macchinario presentasse svariate lacune dal punto di vista della sicurezza. «Non c’era la fotocellula né il pulsante d’arresto del nastro trasportatore, poi c’era un altro elemento in ferro». Dopo l’infortunio, oltretutto, pare che l’azienda stessa abbia cercato di correggere il tiro sulle precauzioni, installando reti di protezione, dettaglio rilevato dalla lavoratrice nelle fotografie messe agli atti. Ci sarebbe anche un messaggio con un’ex collega a darne prova, allorquando chiedendole come stava, la informò dell’installazione delle reti. «Io le risposi – ha reso noto ieri la donna -, “bene, così almeno non vi fate male voi”».