Ravenna, per il cold case di Minguzzi chiesto il rinvio a giudizio

RAVENNA. Sono passati ormai due anni da quando la Procura di Ravenna ha riaperto le indagini sull’omicidio di Pier Paolo Minguzzi, con l’obiettivo di identificare e portare a processo i presunti responsabili del rapimento avvenuto 33 anni fa e costato la vita al 21enne di Alfonsine, trovato morto il Primo maggio del 1987 nel Po di Volano. Ora, l’inchiesta sul cold case condotta dal procuratore capo Alessandro Mancini e dal sostituto procuratore Marilù Gattelli è giunta a un punto cruciale, con la richiesta di rinvio a giudizio per il 55enne Orazio Tasca, originario di Gela e residente a Pavia, il 57enne Angelo Del Dotto di Ascoli Piceno e il 64enne Alfredo Tarroni di Alfonsine. I primi due all’epoca del rapimento erano carabinieri di stanza alla Stazione dell'Arma di Alfonsine, il terzo invece era l’idraulico del paese. Furono arrestati tutti nel luglio di quello stesso anno, due mesi dopo il ritrovamento del cadavere di Minguzzi, per un altro tentativo di estorsione culminato nella sparatoria costata la vita all’appuntato dei carabinieri Sebastiano Vetrano. E per quel fatto hanno già scontato pene tra i 22 anni e mezzo e i 25 anni.

Il rapimento e il delitto
Il nuovo fascicolo destinato al tavolo del giudice per l’udienza preliminare Sabrina Bosi, si è nel frattempo arricchito di elementi indiziari e prove; c’è l’esame del dna sul corpo riesumato della vittima, la perizia fonica sulle conversazioni registrate ma mai analizzate prima d’ora, infine ci sono le testimonianze raccolte dagli investigatori della squadra Mobile, assieme all’Unità delitti insoluti della Direzione centrale Anticrimine della polizia di Stato. Tutto, secondo l’accusa, indicherebbe i tre indagati come responsabili del sequestro, avvenuto la notte di Pasquetta, tra il 20 e il 21 aprile, ad Alfonsine. Minguzzi, studente di Agraria a Bologna e in quel periodo carabiniere di leva a Borgo Mesola, stava rincasando dopo essere stato con la fidanzata prima a Marina Romea e in serata al bowling a Imola. La sua Golf rossa fu trovata parcheggiata in centro paese con le chiavi nel cruscotto, dopo l’allarme dato dalla madre. Qualche ora più tardi i familiari ricevettero la prima telefonata dei rapitori, con la richiesta di un riscatto di 300 milioni di lire. Dieci giorni dopo il corpo fu visto riaffiorare dall’acqua, dov’era stato gettato legato con una corda attorno al collo con il cosiddetto metodo dell’incaprettamento, con una grata in ferro da 16 chili come zavorra.
Da qui le aggravanti contestate a vario titolo ai tre indagati, l’aver agito per motivi abbietti e con crudeltà, approfittando dell’impossibilità del 21enne di difendersi per seviziarlo, abusando inoltre delle proprie funzioni in qualità di carabinieri.


La perizia fonica
A sfavore degli indagati (difesi dagli avvocati Armando Giuliani, Luca Orsini e Massimo Martini) gioca anche una constatazione di fondo, già rimarcata dal procuratore capo con la notifica degli avvisi di conclusione delle indagini preliminari. Nel 1987 Alfonsine era un centro economicamente rigoglioso, ma piccolo, nel quale è improbabile che coesistessero più gruppi criminali dediti al racket delle estorsioni e del sequestro di persona. Da qui l’ipotesi accusatoria legata a uno degli elementi probatori emersi con la perizia fonica sulle intercettazioni di 32 anni fa: e cioè che già durante il sequestro del giovane Minguzzi i tre stessero architettando la seconda estorsione, questa volta alla famiglia Contarini, che sarebbe culminata un paio di mesi dopo con la sparatoria fatale per l’appuntato Vetrano e il loro arresto. Durante una delle telefonate minatorie ai Minguzzi per chiedere il riscatto, uno dei tre rapitori, con accento siciliano marcato aveva fatto confusione con i cognomi: “Pronto parlo con Contarino?… parlo con Contarini?… pronto Menguzzi?”, aveva chiesto. Ma questo è solo uno degli aspetti del fascicolo, che 33 anni dopo il delitto incastrerebbe i tre presunti assassini.

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