Ravenna, morto per monossido: i dubbi sull'installatore e la caldaia

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«Mi sono risvegliata in ospedale, non ricordavo nulla, pensavo di avere avuto un incidente». A parlare è la compagna di Giuseppe Ostuni, l’imprenditore edile morto a 54 anni in seguito a una fuga di gas avvenuta nell’appartamento di via Trieste dove si trovava nella notte tra il 13 e il 14 ottobre del 2016. La donna, 31 anni, di origini albanesi, è parte civile nel processo che vede imputato per omicidio colposo il tecnico (accusato di omicidio colposo e difeso dall’avvocato Domenico Noris Bucchi, che ieri era sostituito dal collega Luigi Scarcella) che aveva montato la caldaia da cui sarebbe uscito il monossido di carbonio fatale.

Tutelata dall’avvocato Michele Andreucci, la ragazza, allora 25enne, fu ricoverata in ospedale per intossicazione da monossido e vi rimase per oltre dieci giorni. Ieri mattina è stata ascoltata in Tribunale a Ravenna dal giudice Cristiano Coiro e dal vice procuratore onorario Katia Ravaioli.
In quasi due ore di deposizione, la 31enne ha ripercorso le tappe della propria storia con Ostuni, tenuta nascosta a tutti tranne che alla sorella minore «perché la mia famiglia – ha detto – non avrebbe mai accettato la differenza d’età». La segretezza della relazione avrebbe portato la donna a evitare ogni incontro con l’idraulico che Ostuni aveva incaricato per montare la nuova caldaia dopo la rottura definitiva di quella vecchia: «Conosceva bene mio padre – ha riferito – e temevo che lo avrebbe chiamato per dirgli chi frequentavo». La giovane, pur non ricordando le tempistiche precise, afferma comunque di essere certa che sia stato proprio quel lontano conoscente a collocare la caldaia nell’appartamento di via Trieste. Un particolare, questo, su cui dice di essersi confrontata con un amico e collaboratore del compagno alcune settimane dopo l’accaduto: «Mi disse che faticava a comprendere come Ostuni avesse deciso di chiamare per la caldaia lo stesso tecnico che aveva già causato dei problemi in altri cantieri». Dichiarazioni più volte contestate dalla difesa dell’imputato, intervenuta per puntualizzare come la donna non avesse mai fatto riferimenti diretti sull’identità dell’installatore quando, poco dopo i fatti, era stata sentita dai Carabinieri. E nemmeno quando sporse querela. «Ma io – ha spiegato la 31enne – ero ancora incredula e scioccata per quello che era successo».

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