Ravenna, la dottoressa Omicini in pensione dopo 40 anni

Ravenna

E' impossibile quantificare il numero di assistiti che, in 40 anni, la dottoressa Ebe Omicini ha curato nelle Ville Unite. Prima nel suo studio di San Pietro in Campiano, poi nella casa della salute di San Pietro in Vincoli con una fase, circa tre anni fa, in cui ha detenuto entrambi i presìdi. Ieri per la medico curante del forese ravennate, è stato l'ultimo giorno di servizio. Ma sicuramente troverà il modo di rimanere vicina ai suoi pazienti.

Quale stato d'animo ha caratterizzato questa sua ultima giornata di lavoro?

«Una certa malinconia, non lo nascondo. Anche se è stato un fluire di emozioni molto forte e complesso. Vedendo ogni mio assistito, oggi, mi veniva in mente tutto il percorso di cura e i confronti avuti assieme, con ognuno. Sono medico dentro, non è qualcosa che potrà cambiare mai».

Sono venuti per bisogno in ambulatorio, o in questa giornata più per salutarla?

«Beh, è da un mese e mezzo circa che vengono per entrambi i motivi. E mi ha fatto molto piacere perché ho così potuto cercare di rivederli quasi tutti provando ad assolvere a quegli aspetti che, per ognuno, potevano essere in sospeso. Richieste di esami, controlli, analisi. Mi piaceva l'idea di chiudere un ciclo lasciando il più possibile il percorso compiuto. Poi qualcosa rimane sempre in sospeso, è ovvio».

Cosa le mancherà del suo lavoro?

«Tutto, non mi sono mai pentita di averlo scelto. Il sociale, la cura delle persone, mi hanno sempre presa profondamente. Dover salutare i miei pazienti non è stato per nulla semplice».

Cosa invece non le mancherà di certo?

«Lo squillo del telefono, negli ultimi tempi è stato veramente persistente. La pausa da quel suono penso mi consentirà di fare qualche bella e serena dormita, nei prossimi giorni».

E' facile immaginare, infatti, quale possa essere stata l'esperienza più provante della sua carriera...

«Beh, non è così banale invece. Ho avuto sempre la tendenza di seguire il decorso dei miei pazienti gravi anche nella fase terminale di una malattia, e questo non è semplice. Però effettivamente i mesi della pandemia sono stati veramente impegnativi: non c'era sabato, non c'era domenica. Raggiungevo chi aveva bisogno a casa, senza sosta, e certamente è stato gravoso. Ma non solo».

In che senso?

«Il vissuto dei pazienti lo si percepisce nella sua completezza, attraverso l'esperienza non solo loro, ma anche dei parenti, delle persone che stanno loro vicino. E diventa così un'esperienza umana intensa e totalizzante. Quando sei medico vivi tutto, delle persone».

Ora cosa farà?

«Innanzitutto la nonna, ho un nipotino a cui ho gran voglia di dare ancor maggiore attenzione. Però in breve credo che mi attiverò per il volontariato. Amo molto la Casa della Salute di San Pietro in Vincoli, la giudico un gioiellino, e con i ragazzi della struttura voglio continuare a collaborare, magari come medico vaccinale. Poi l'Auser qui funziona a meraviglia e alla vulcanica Venera Cani non potrò mai dire di no. Sì, credo che avrò occasione di rivedere presto molti dei miei assistiti».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui