Ravenna, guarito medico contagiato: "Mi sentivo un untore"

RAVENNA. «Temevo di avere contagiato amici o pazienti, mi sono sentito un untore». Da tre settimane Stefano Socci, medico di base 34enne della Casa della Salute di San Pietro in Vincoli, manca dal lavoro. Da quando cioè ha accusato i primi sintomi che il 12 marzo scorso hanno poi avuto conferma della positività al coronavirus. Ora che il periodo di quarantena sta per finire attende l’esito degli ultimi tamponi per sapere se può ritenersi definitivamente guarito, entrando a far parte dell’elenco di chi in provincia di Ravenna ha vinto la battaglia contro la Covid-19. La parte più dura dell’isolamento, ammette, è stata la lontananza dalla famiglia, risparmiata così come i suoi pazienti dal contagio.

Dottor Socci, partiamo dai sintomi. Che cosa le ha fatto scattare il “campanello d’allarme”?
«La sintomatologia è esordita di domenica con febbre sopra i 38°, intenso mal di testa e altrettanto intensi dolori muscolari e articolari. Un accenno di mal di gola il giorno prima e qualche sporadico colpo di tosse secca».

Un’influenza in pratica…
«Sì, sembrava un esordio influenzale o parainfluenzale. Il campanello è scattato proprio perché sono vaccinato. Sommando a questo la mia professione, mi sono deciso a chiamare immediatamente il servizio di Igiene territoriale, anche se mancava un criterio importante, cioè un contatto stretto con un caso accertato».

C’è una procedura per i medici di base contagiati?
«Manco dal lavoro da tre settimane, non sono informato se esistano o meno procedure particolari. Consideriamo che la mia “disavventura” si riferisce al periodo iniziale dell’emergenza, parecchie cose saranno di certo cambiate».

Si è capito in che modo potrebbe avere contratto il virus?
«Non con certezza. Quasi sicuramente in ambito lavorativo, anche se le uniche persone a rischio che ho visitato avevano solo sintomi aspecifici e pertanto non messe in isolamento o comunque risultate negative ai tamponi. Nessun paziente con febbre è stato fatto accedere all’ambulatorio. Era del periodo iniziale dell’epidemia, quindi le nozioni su epidemiologia e trasmissione del virus erano ancora deficitarie».

Quindi potrebbero non essere contate le protezioni?
«Camici monouso e mascherine, che andrebbero frequentemente cambiati, ma si dovevano centellinare in un contesto di carenza generale di dispositivi di protezione individuali non facilmente reperibili neppure in libera vendita fin dall’inizio della crisi».

Che cosa è accaduto poi?
«Dopo alcuni giorni dalla mia telefonata sono venuti a casa gli operatori dell’Ausl per eseguire il tampone, risultato positivo il giorno dopo».

Come ha affrontato la malattia?
«Si è sviluppata in maniera tutto sommato lieve. Dopo tre giorni dall’esordio, senza alcuna terapia se non quella sintomatica, paracetamolo per lo stato febbrile e i dolori, sono tornato completamente sfebbrato».

Può già tornare al lavoro ora?
«Ancora non so quando potrò riprendere. Devono essere eseguiti due tamponi a distanza di 24 ore l’uno dall’altro e risultare entrambi negativi. Ancora non conosco le tempistiche tecniche per queste verifiche».

La quarantena quindi continua per lei. Come la vive un medico passato dalla parte del paziente?
«Visto che abito con compagna e figlia di nemmeno due anni in una casa piccola, appena iniziati i sintomi ho mandato la famiglia in quarantena dai miei futuri suoceri, anch’essi in isolamento per ridurre il rischio di contagio, che durante il periodo sintomatico è sicuramente maggiore. Mi mancano. Preoccupazioni per me non ne ho avute, e ritengo che ogni tanto passare nella parte del malato aiuti a sviluppare un senso empatico. Temevo più l’avere eventualmente contagiato le persone venute a contatto stretto con me, amici o pazienti. Mi sentivo un “untore”, ma fortunatamente non ci sono stati casi a me collegati».

Qualche paziente l’ha chiamata?
«Parecchie persone l’hanno fatto. Alcune volevano sapere come comportarsi, la maggior parte voleva rassicurazioni sul mio stato di salute… le chiacchiere di paese ingigantiscono sempre le cose. I pazienti che ho visitato hanno in ogni modo ricevuto la telefonata dell’Ausl, e io mi sono interfacciato spesso con i colleghi della Sanità pubblica girando loro l’agenda con gli appuntamenti per poter avviare i controlli».

C’è un consiglio che si sente di dare a chi ha contratto la malattia?
«Non esitare di contattare i medici se c’è un peggioramento dei sintomi o alla loro comparsa se si è stati a contatto con persone a loro volta positive. Non muoversi da casa ma mantenere i contatti sociali, ovviamente non di persona. Non si ha idea di quanto aiuti a superare la malattia o l’isolamento poter sentire la voce delle persone care».

Secondo lei l’epidemia, una volta passata, cambierà il suo lavoro?
«Lo scopriremo solo andando avanti e superandola. Sarà difficile per tutti tornare alla normalità. Difficile non pensare che qualche febbre o tosse, magari lontano dal periodo influenzale, possa essere dovuta ad un’infezione da coronavirus. Sarà difficile non allontanarsi di qualche passo da chi tossisce o starnutisce. Sarà difficile anche uscire di casa senza il timore di contrarre l’infezione. Ci vorrà del tempo per tornare alla routine. Credo che psicologicamente riusciremo a superare questa pandemia, in particolar modo quando verrà reso disponibile un efficace vaccino».

Nessun cambiamento in meglio?
«Ricettazione telematica, maggiori consulti telefonici o video, prenotazioni e ritiro referti da casa, ad esempio tramite fascicolo sanitario elettronico, minori accessi domiciliari/ambulatoriali per le piccole patologie… È realistico ipotizzare che si manterranno per un certo periodo questi cambiamenti migliorativi portati dal coronavirus».

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