Ravenna, giovane contagiata dal virus. Per il medico era solo ansia

Quando le è arrivato il referto dello screening sierologico che certificava la sua positività al coronavirus è stata quasi, per paradosso, una liberazione. Per mesi, il suo medico di base aveva infatti escluso una positività al covid-19, arrivando a darle un ansiolitico anziché sottoporla – come da lei a lungo richiesto – ad un test per capire se aveva contratto il virus.

La storia

La protagonista della vicenda è una ravennate di 27 anni che accetta di raccontare la sua storia a patto di mantenere l’anonimato. Tutto è iniziato nei giorni in cui l’Italia stava entrando nell’incubo del Covid 19, quel weekend del 7 e 8 marzo rimasto nell’immaginario collettivo di molti, soprattutto in Romagna: il governo aveva appena emanato le prime disposizioni restrittive ma non si era ancora in lockdown. La chiusura delle scuole e di alcune aziende erano state scambiate da molti come un invito alla gita di piacere e infatti i lidi si erano riempiti di turisti. Nel fine settimana la 27enne lavorava come cameriera in un locale della rivera ravennate: «Era il primo giorno di lavoro – racconta – ed ero un po’ preoccupata per quanto stava accadendo ma senza esagerare. Certo, quando ho visto quel flusso di persone ho pensato che fossero incoscienti». Subito dopo è scattato il lockdown nazionale; era il 9 marzo. Lo stesso giorno la ragazza inizia ad avere segnali di debolezza, certificati dal termometro la mattinata seguente: febbre. «È rimasta tra i 37 e i 38 gradi, mai più alta. Però avevo tosse e non sentivo sapori e odori. Ancora non si sapeva che fosse un sintomo del coronavirus ma sia io sia il mio ragazzo, convivente, mangiavamo la pizza e non ne sentivamo il sapore: sembrava il cartone. Così ho chiamato il medico di base per farmi consigliare. Lui mi ha detto di non preoccuparmi e stare in casa». Va detto che inizialmente i medici di famiglia avevano indicazioni dall’Ausl: dare priorità ai casi gravi e agli anziani, invitando i giovani e le persone con sintomi leggeri a non uscire.

I sintomi

«La febbre – continua la 27enne – mi è passata dopo una decina di giorni. La tosse però è durata un mese e mezzo, così come l’assenza di odori e sapori. Il medico mi aveva detto che oltre al coronavirus c’era anche un’altra influenza in giro, continuando ad escludere una mia positività». Alla fine del lockdown i sintomi sembrano ormai scemati ma è proprio qui che la vicenda ha di fatto la sua svolta più difficile: la ragazza si accorge di fare particolarmente fatica nello sforzo fisico, così come a salire le scale e ad andare in bicicletta. In occasione di un trasloco, respirando polvere e sollevando pesi, ha quasi una crisi respiratoria: «Mi sono spaventata, era simile ad un attacco di panico. Sono tornata al lavoro e avevo il fiatone. Non mi era mai capitato. In quel momento i sintomi e i postumi del coronavirus cominciavano ad essere più chiari e io li avevo tutti, poi mi hanno detto che nel weekend in cui ho lavorato alcuni clienti venivano dal Piacentino. Così sono tornata dal dottore per ripetergli che pensavo di aver avuto il virus. Lui lo ha escluso di nuovo e mi ha prescritto altri esami ma non il test sierologico».

Il responso

Gli esami non mostrano malattie particolari e il medico dice alla paziente che la sua era, in sostanza, ansia. Tanto da prescriverle uno psicofarmaco: «Io non ero per nulla convinta della cura ma ho accettato di prenderlo per due settimane e intanto mi sono mossa in autonomia». La scelta che dà una virata positiva alla vicenda è la decisione di fare una telefonata al servizio psicologico dell’Ausl. «Ho chiamato piangendo, spiegando che pensavo di avere avuto il covid ma che non mi credevano. Così mi hanno dato il contatto di una specialista di Torino: avevo diritto a quattro sedute. Lei è stata bravissima. Alla fine degli incontri mi ha detto che riteneva che il mio senso di stanchezza, che si manifestava dopo sforzi fisici e non a riposo, non fosse dovuto a questioni psicologiche ma a motivazioni fisiche. Così sono tornata dal medico, ho chiesto di nuovo il test sierologico negando la mia disponibilità a continuare a prendere psicofarmaci. A quel punto, controvoglia, il dottore ha acconsentito e mi ha prescritto l’esame». L’esito del test sierologico arriva dopo alcuni giorni: positivo, con tampone negativo. Era giugno inoltrato, tre mesi dopo quella febbre di marzo. «Dal punto di vista psicologico ero sollevata da una parte ma arrabbiata dall’altra perché se avessi fatto subito l’esame mi sarei risparmiata più di due mesi di sofferenza. Il medico a quel punto mi ha prescritto una lastra che non ha evidenziato problemi. Io mi sento ancora debole a fare certi sforzi, anche se comincio a stare meglio. Mi è stato spiegato però che servirebbe una tac per capire in modo più approfondito le conseguenze della malattia». Ora, di fronte agli aperitivi al mare, la 27enne resta perplessa, per usare un eufemismo: «Io continuo ad essere attenta alle regole, come lo sono sempre stata anche per la condizione in cui mi trovavo. Quando vedo però le feste e gli aperitivi mi chiedo come sia possibile permetterli nel momento in cui le Università sono chiuse: io non posso fare lezione e ho anche perso i lavori che facevo per mantenermi. Se non per altruismo, credo che almeno per se stessi sia necessario avere prudenza. Lo dico per esperienza: io non rivivrei mai ciò che ho passato».

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